Mi capita di fissare un punto più o meno lontano, un punto insignificante - ad esempio il serbatoio idrico a torre delle FS che si staglia nel plumbeo cielo invernale fra la grigia zona industriale di Vicenza e l'algida silhouette delle dolomiti imbiancate -, quindi di perdermi nell'elaborazione di silenziosi vaneggiamenti, sragionando e giungendo a conclusioni affrettate, affettate, non consone alla complessità del reale, alla vastità del caso.
Mai affrontato il futuro con respiro positivista, piuttosto con spirito d'improvvisazione coltrane-iano. Mi sono sempre messo in posizione: ginocchia leggermente piegate e puntate verso l'eterno, mani ben salde e aggrappate sulle rotule, trigemino rilassato, sguardo intimidito, occhi socchiusi e scarsa prontezza di spirito - that's about it. Come un’ondata, uno spaventoso tsunami, il mostro mi assale di fronte e tenta di scaraventarmi al suolo, mi schiaffeggia e mi sferza con violenza inaudita; subdolo e ingannevole prova a strapparmi alla terra e a quella misera scodellata di certezze rimaste, e quel che più mi angoscia è che è intangibile. E io? E io fermo, immobile, una lucertola al sole, un Andreotti pre-mortem atterrito e folgorato dalla temibile quaestio Presidente, Quale Futuro Per I Nostri Non Più Giovani?, debole e pur vigile, scrutante un orizzonte nebuloso, che mai si spingerà più in là dell'immaginazione e la cui contemplazione sempre mi condannò ad un presente mitigato e scherzato da magnetismi invisibili, d'altri tempi e d'altri universi. D'improvviso - in un adesso fittizio, ma forse realmente vissuto -, filtrata dall'iride che si allarga inondata dal bagliore, mi si rivela di fronte una scena che mille, milioni, sicuramente miliardi di occhi già impressero nelle loro retine e che già provocò profluvi di estasi e parole ed esplosioni di colori e stelle filanti nelle menti dei poveri e disperati mortali che mi precedettero e che mi seguiranno e che mai risolsero né risolveranno il dolceamaro stillicidio del pensare-a-ciò-che-verrà, cionondimeno è lì: un fascio di luce solare, tremolante ma accecante data l'oscurità attorno, penetra fra le nuvole e si posa sulla sommità del monte, allargandosi sempre di più. Sì, il proverbiale Raggio Di Speranza, metafora logora e stinta; eppure rimane un appiglio immaginifico di grande potenza, e in quanto tale ci "costringerà" silenziosamente a tendere sempre verso la luce senza mollare mai la presa.
Nel ricorrente sogno in semi-deliquio fra la prima sveglia delle 7.05 e la seconda delle 7.10 e poi la terza delle 7.15 ballo ballo ballerino al centro dell'Universo con l'Immondo Azathoth alla luce di mille sigarette e di una nera luna che ti oscura la notte, lascio andare detta presa, detta speranza, e mi lascio trapassare e pervadere dal senso d'incertezza che stringe e che sfascia ogni resistenza, che brucia i ponti fra lo stomaco e le sinapsi cerebrali, che cancella e polverizza ogni tentativo di razionalizzare e ordinare per punti per scomparti per confini, visibili o non visibili, teorizzabili ed eternamente perforati dal più infinitesimo spillo che ovunque trova un passaggio per bucare il tessuto, per quanto fitto e saldo e lavorato, perfezionato nell'elasticità e nella consistenza e nella resistenza da millenni di tentativi falliti e di occasioni sprecate. Alla fine del sogno torno a vedere tutto come è, o meglio, ribalto la prospettiva della visione: vengo sopraffatto dall'oscurità e dal caos e mi ritrovo ad accogliere l'idea che non ogni cosa è illuminata, mi guardo attorno e finalmente non capisco, quindi mi sveglio.