Primavera individuale
Era nata il primo giorno di primavera. Non aveva nessun dubbio su ciò che le piaceva oppure no. Era nata tra i sassi in un posto lontano, o almeno così se la raccontava. Il problema principale era che tutto ciò che trapassava il suo corpo ora saettava veloce e spariva in mezzo alla nebbia, lassù in alto. Era minuta e i capelli castani le cadevano fin sotto le spalle. Aveva sempre saputo, sì, che strada avrebbe percorso, che nonostante le mutazioni della vita restava sempre un modo per formare una linea retta.
Anche il dolore arrivava veloce, tutto quello che aveva soppresso per molti anni, repellendo tutto ciò che concerneva la parte del cervello dedicata allo spazio, all’aria, al vento. Era stato meglio vivere come se nulla fosse. Solo ora capiva che non era così, che tutto quello che resta sono solo menzogne, bugie, freddo. Nebbia umida e fredda, indifferenza palpabile.
Era felice, ma solo se tutto all’infuori da sé funzionava alla perfezione, se tutto sembrava in ordine. Anche quella volta che da ubriaca aveva improvvisato un monologo ,in ginocchio, davanti alla fermata dell’autobus. Fuori era freddo e tirava un vento fortissimo.
Il cuore si era fermato e la sua faccia non si vedeva più, tant’era scuro. O forse era lei che non distingueva più nulla. Era rimasta lì, come un sasso, un braccio proteso verso il vento, incurante del passaggio notturno di automobili e persone. Era una chiusura, dire basta ai compromessi, prendere il cuore e lanciarlo per terra con rabbia, ancora pulsante. Vedere l’organo nella sua interezza muoversi palpitante come una gallina che ancora tira le ultime zampate quando viene dissanguata. La coda di una lucertola che si dimena sotto un sole umido e carico di sale.
Su e giù, il petto di muoveva veloce. Non riusciva ad ingoiare nulla. Il pugnale calava dalla nebbia e colpiva direttamente allo stomaco; il riverbero del dolore suonava come migliaia di aghi. Era la rabbia, la rabbia di essersi nascosta tutto. Di aver mentito, di non avere ammesso a sé stessa che il tempo, anche se relativo, passa. Passa perché è inevitabile arrivare all’unico punto che ci concede la vita, che sia appunto primo e l’ultimo, una sola chance per cambiare prospettiva. Tutto si costruisce attraverso i segni del tempo, di quello che scorre e che si fa scorrere. Il rubinetto poteva aprirlo anche lei, non solo gli altri, per immergersi in una vasca di acqua bollente con una sigaretta tra le labbra. Poteva riposare il suo fisico nervoso, scattante e leggero, il suo collo sottile. Dall’alto delle rocce aveva sempre avuto la possibilità di vedere paesaggi sconfinati, ma quello che invece le bruciava dentro non era mai riuscita a vederlo con così tanta chiarezza come ora. Una vista limpida, annebbiata solo all’altezza del mare, laggiù in fondo.
Era la tranquillità nevrotica di un astemio agli inizi, di un fumatore in astinenza durante una riunione. Lottava da sempre, da quando era scesa dai sassi per rimanere viva senza farsi condizionare dai gesti e dalle parole degli altri. In queste occasioni spesso sapeva come reagire: nascondere, impilare, lasciar impolverare e infine, dimenticare.
Non si era dimenticata niente. Pensava fosse così, ma tutto tornava su: un rigetto di bile acida. Visi, corpi e voci che aveva attraversato ricomparivano in veste diversa, in un tempo diverso, in abiti diversi. Con gesti e accenti completamente stravolti. Bussavano alla sua testa tutti insieme urlando, le voci si sovrapponevano e lei voleva solo urlare; in terrazzo, da sola sotto la luce, urlare. Dire fanculo alla vicina, troppo vecchia, troppo piena di tempo da riempire, mentre lei non ne aveva abbastanza per fare ordine. Allora sezionava le sue giornate, concedendosi lunghi sorsi di grappa pensando e pianificando il futuro. Più cadeva in basso, più le sue ali raccoglievano catrame, più voleva volare lontano. Ne era consapevole e questo la spaventava a morte. Una rincorsa, un balzo: il vuoto, il vento e la nebbia.
La nebbia che scompare rende i colori più vividi, l’occhio si deve abituare di nuovo alla nitidezza. Il freddo passa, le ossa escono dalle coperte. Molto lentamente si affaccia al sole di mezzogiorno. Qualche merlo si posa sulle terrazze silenziose. Acqua salata scorre sul viso pallido, le ginocchia cedono. Non cade e si appoggia al parapetto.
Bastavano pochi minuti perché un saliscendi di tremori istighi una serie di emozioni circoscritte a frazioni di secondo minime, che la facesse sentire viva, come non lo era mai stato prima. La gioia, così come tutte le emozioni possono derivare da inneschi diversi, eppure muovono le stesse molecole. Così l’altalena trova il suo filo dritto, e il dondolio continua, sempre di intensità maggiore. Come i bambini si lasciava dondolare, si perdeva tra quelli che una volta reputava scarti. Si sentiva come se l’avessero svegliata dopo anni di sonno. Anni in cui aveva creduto in una stasi che non era mai esistita.
Lo aveva trovato, alla fine. Fuori da un bar. Era una persona diversa, e ora che ci pensava meglio, non si ricordava neanche come si erano conosciuti e quando. Ci si era fermata a parlare, ma era come parlare con uno sconosciuto; agli occhi di lui, lei era una sconosciuta.
La seconda volta che lo aveva incrociato, aveva fatto finta di nulla. Nell’indifferenza più naturale, come se stesse passando davanti ad uno sconosciuto, tale alla fine era diventato. O meglio, era ritornato.
Il tempo è fatto di andate e di ritorni, di primi e secondi tempi, all’infinito, pensava. Il ciclo non si ferma mai e i primi e secondi tempi si susseguono in eterno, perché l’uomo per quanto razionale, non può controllare il corso degli eventi, non può averne il potere. Lei non poteva averne potere.
I brividi scorrevano, fiumi di aghi, nebbia e vento. Il sole era alto nel cielo e lei lo voleva raggiungere ringraziando la terra con le mani. Quelle mani delicate e forti, che avevano afferrato così spesso la roccia, ora vedevano delle piccole genziane, piccoli boccioli in attesa di fiorire.
Solitario, minuto stupore.