Punto Omega
“In situazioni estreme, l’uomo sostanzialmente non è affatto come ce lo descrivono i libri. Quell’uomo dei libri non l’ho mai trovato. Mai incontrato. È tutto l’opposto. L’uomo non è un eroe. Tutti noi non siamo altro che venditori di apocalissi. Piccole e grandi.”
— Svetlana Aleksievič, Preghiera per Čhernobyl'
Mi sento come i sopravvissuti di Chernobyl: troppo pesante, le gambe impossibili da sollevare, svuotato di ogni forza, sopraffatto dagli eventi più che dalle radiazioni, teso, frustrato, sfinito. Vivo in piena dissonanza cognitiva, schiacciato fra le notizie dall’Italia, dove si suggeriscono (si realizzano!) scenari da film apocalittico, dove si chiudono scuole, fabbriche, negozi, stazioni, aeroporti, e l’indifferenza tedesca, dove l’unica cosa che viene chiusa è l’ingresso anteriore degli autobus (per proteggere il conducente). Un virus scarsamente letale ma altamente contagioso (COVID-19 è la malattia, il virus si chiama SARS-CoV-2) è appena stato dichiarato pandemia dall’OMS (WHO in inglese), le reazioni sono molteplici e tutte puntualmente anticipate dai fatti e seguite dai dati che si accumulano in un’orgia di interpretazioni insensate, in mancanza di un approccio e di una classificazione coerenti (percentuali discordanti, rilevazioni impazzite, morti per o con?). Sono uscito di casa perché non potevo più stare rinchiuso in quei cinquanta metri quadrati a controllare pagine di notizie, guardare video, leggere interviste, aggiornare mappe in tempo reale e aspettare una quarantena che non arriva mai; qua fuori però è ancora peggio: i bar e gli Späti perennemente aperti e affollati di avventori indifferenti, le file di auto, i clacson, il centro commerciale dal quale entrano ed escono senza sosta bravi cittadini con le loro buste di plastica, stracolme di cibi importati, cianfrusaglie a prezzi irrisori, vestiti sportivi, giochi per bambini, integratori, profumi, bigiotteria, e poi tutti giù con la marea che si riversa negli ingessi della metropolitana, schiacciati nei vagoni luridi, i pavimenti appiccicosi di piscio e birra, stretti l’uno contro l’altro pur di arrivare in ufficio in orario per schernire coi colleghi questa nuova emergenza che non fa paura a nessuno almeno fino a quando non la farà. Mi accascio su una panchina qualsiasi, troppo stanco per continuare oltre, da qui posso assistere persino agli indefessi corridori da tapis roulant del quinto piano, una palestra asfittica con una stanza dei corsi non areata dove si ammassano quotidianamente decine di persone sudate e ansimanti, sudo anch’io a vederli nonostante le temperature di poco superiori allo zero. Non temo per la mia salute fisica, ma per quella mentale. Siamo o non siamo sull’orlo dell’abisso, di un cambiamento epocale, di un giro di vite nella follia umana, nel capitalismo del controllo o stiamo ballando sul classico Titanic che continua la rotta imperterrita, incapace di correggersi anche quando l’iceberg è ben visibile a prua, stiamo assistendo a un avvenimento storico, l’ennesimo, l’ultimo figlio della nostra ingordigia, del nostro distruggere e fagocitare ogni spazio numero ecosistema essere vivente al mondo, ancora una crisi che questa volta cambierà la nostra vita quotidiana, la nostra percezione della sanità pubblica e globalizzata, che metterà in discussione, in un modo o nell’altro, la politica e l’economia continentale se non mondiale, un altro piccolo passo verso l’apocalisse… A qualche centinaia di chilometri da qui le strade sono vuote, i negozi e le aziende chiudono, alcuni per sempre, le carceri esplodono e le borse tracollano, si accumulano i malati nelle corsie ospedaliere straripanti e i morti vengono chiusi nei sacchi pochi secondi dopo essere soffocati nei loro letti, eppure qui nulla cambia, tutto si ripete uguale a se stesso, mi aspettano al lavoro come tutti i giorni, pronti con le loro battute stantie sul virus e sulla mia nazionalità. Non riesco a spiegarmi questo paradosso, né a tranquillizzarmi, so solo aspettare un giorno e poi il successivo, aspettare eventi e reazioni a cui non riesco a dare una coerenza interna, storia della mia vita, mi guardo attorno ancora una volta alla ricerca di un punto di riferimento, uno sguardo di simpatia o compassione, senza trovarlo: le persone che mi circondano mi sembrano più vive che mai, magari già infettate ma inconsapevoli, corrono, saltano, ridono, parlano, tossiscono, tutto va avanti tranne me, tutto continuerà anche dopo che il mio cervello avrà smesso di arrovellarsi sulla propria paralisi analitica, nessuno farà caso alla mia assenza come nessuno fa caso alla mia presenza, alzo lo sguardo fino al cielo, alle nuvole gonfie affacciate fra i condomini: che alla fine questa volta il morto sia io?