Nella mia testa c’è una discesa che va ad una casetta piena di merda e nella casetta c’è un fuoco sempre acceso che è la mia fame e che chiamo famite, cioè col nome che si darebbe a una piaga, anche se quasi sempre me la cerco e me la godo. Potrei morire felicemente soffocato da brandelli di pane e gorgonzola masticati male, praticamente aspirati tra i rulli del palato e della lingua, assieme a palate di zuppa di frigo, croste orfane ed anonime e patatine rammollite, noncurante dei gonfiori di pancia che si formano dopo una tale abbuffata. Chissà cosa direbbero i miei nonni, i nonni delle mie ex e quelli di tutti i miei conoscenti se mi spiassero in cucina, chissà che direbbe tutta questa gente morta.
Immaginate che per ogni movimento del vostro corpo ve ne sia uno inverso prodotto da un’altra forza nell’atmosfera in cui siamo tutti immersi. Immaginate che i vostri arti abbiano un corrispettivo antitetico, perfettamente speculare a ciò che definisce la buona riuscita di una cosa del vostro mondo.
Io, mi metto a pulire i fagiolini facendone saltare via il capo e la coda su un tagliere di legno con colpi secchi di lama. Un principio automatizzato me li fa contare uno ad uno, così come quando conto le mattonelle su cui cammino o le fasi che devo superare per passare dal bagno alla camera da letto: chiudere il rubinetto, appoggiare lo spazzolino, girare il busto, asciugarmi, fare un passo indietro… e via fino a superare la soglia, un’altra soglia, eccetera. Mi illudo di poter governare coi numeri quei pezzi di fagiolini che si sparpagliano per farmi confondere.
Arrivo a cento e decido di ricominciare da uno e di sommare alla fine. Perdo il conto, ero arrivato o a duecentotré o a duecentotrenta. Sul fondo restano baccelli troppo piccoli o già spezzati che non so se contare a gruppetti o ancora uno per uno, non so dove finisca il mucchio e dove cominci l’unità.
Esco, butto un occhio sulla targhetta nuova del citofono col mio nome e cognome, Ferdinando Balusca, sbiadito per una ditata di colla extra-forte che avevo cercato di rimuovere, piccola ma non abbastanza da non mandarmi in pappa il cervello. Avevo solo una targhetta, una targhetta costa cinquanta euro in questo condominio.
La passeggiata delle donne in primavera è fonte di idratazione e di vita, vago per strada scandendo a mente la parola FICA. Chissà cosa direbbero i miei nonni, i nonni delle mie ex e quelli di tutti i miei conoscenti se mi ascoltassero nella testa mentre cammino per strada.
Mi accorgo di una figura dietro a una colonna, sento il suono dei passi, aumento l’andatura per avvistarla ma non serve a niente, lei continua a camminare dietro questa colonna che mi copre la visuale in direzione opposta alla mia, nella sequenza di colonne a seguire. La prospettiva tra noi due non fa che ridurci e tenerci nascosti. Potrei girare un videoclip con questo maledettissimo effetto delle colonne dei portici, una di quelle cose di video-arte, la ripresa di una videocamera che oscilla su un lato della colonna, combinata con quella di un’altra videocamera che fa lo stesso ma dal lato opposto. Novantadue cambi in totale e fine, in loop, lo mandi su un monitor in uno scantinato imbiancato a cazzo di cane, una galleria d’arte, qualcuno ci scrive sopra che si tratta della «rappresentazione di un fenomeno fisico-psicologico dell’oggetto fra l’essere pensante e la concezione dell’ordine», un centinaio di fogli, birra e olive gratis.
Ma insomma, stavo giusto passeggiando splendidamente verso la fermata quando un autobus è sbucato veloce da una rotonda e mi ha superato. Ho provato a fare una corsa, nel frattempo l’autobus ha accostato ed è ripartito dando il gas senza neanche fermarsi, come in un universo parallelo in cui non ero concepito.
Sul bus che passa dopo, timbro e infilo il biglietto nel mio portatessere, un comunissimo portatessere di plastica trasparente, con due fessure, ne uso una per il biglietto appena timbrato e una per il biglietto del ritorno. Ripongo il portatessere nella tasca della giacca dove ho il portafogli, in modo che il biglietto per il ritorno sia rivolto vero il petto. Ho provato e riprovato questo movimento per tirare fuori il portatessere già sul lato del biglietto nuovo, pronto per essere convalidato. Devo solo infilare la mano nella tasca della giacca e tirare fuori il portatessere con un solo gesto. Eppure, al momento del bisogno, qualcosa va storto e mi ritrovo in mano il portatessere dal lato del biglietto usato. È successo qualcosa nella tasca della mia giacca, nulla a cui far caso, nulla di sproporzionato, si direbbe soltanto una mia microscopica distrazione.
Il motivo per cui mi ero messo in testa di uscire, poi. Ho provato a fare un foro ad una cintura nuova troppo larga, prima con una matita appuntita, poi con un cacciavite, poi con un punteruolo e infine con un taglierino. Mi sono ritrovato con un foro fatto a cazzo di cane e ho deciso di andare da un calzolaio. Gli ho chiesto di accorciare la cintura e senza darvi troppo peso gli ho chiesto anche di sistemare il foro che ho fatto a cazzo di cane, glie l’ho chiesto di sfuggita, per non fare al calzolaio una brutta impressione. Passa un’oretta e torno a ritirare la cintura ma non ho il coraggio di vedere se il calzolaio ha sistemato anche il foro o no e solo una volta fuori dal negozio controllo la cintura e lo vedo lì, il foro fatto a cazzo di cane. Impossibile tornare indietro e dire Mi scusi si è dimenticato di sistemare il foro. Faccio scorrere la cintura addosso, al suo posto, dannazione, con tutta la sfiga di una merda di foro.
Il coltello, la targhetta, il porta-tessere, la matita appuntita, il cacciavite, il punteruolo, il taglierino, la maniglia della porta del calzolaio, la cintura, sono tutti oggetti contro. Lo spazio brulica di volontà che non appartengono a me ma a spigoli molto determinati che mi puntano, oggetti che mi si oppongono, ante che mi scivolano dalla presa e sbattono forte proprio mentre mi sforzo di socchiuderle piano, di mattina alle 4:40. I vasi e le scodelle mi cadono e si scheggiano, gli imbuti trottolano macchiando i muri d’olio di oliva, gli utensili da cucina sbatacchiano per finire col manico in una pentola di sugo, le maniglie delle porte mi si appigliano e mi bucano le maniche. Aspiro felice col naso l’aria fresca di un parco e un fottutissimo granello si infila in una narice con un contatto sottile che mi rimane impresso sui nervi per ore. Gli oggetti si nascondono con abilità misteriose e si prendono gioco di me e più cerco pace, ordine e mestizia, più s’addensa il disordine e l’ira e siccome mi piace farmi pena da solo finisce che credo di essere semplicemente in balìa delle mie azioni maldestre e della mia sbadataggine o di avere le mani fatte di merda, che non sanno stringere una maniglia o un bicchiere, o di avere un senso dello spazio che non sa farmi schivare una porta.
Oggetti contro, oggetti contro, oggetti contro. Maneggio un cucchiaino di miele e finisco per ribaltare il coperchio di una pentola; nel raddrizzare il coperchio, continuando a maneggiare il cucchiaino che non so dove appoggiare, sposto tutta la pentola di quel poco che basta a intralciare le mosse successive che dovrei fare e, soprattutto, succede che il cucchiaino mi ruota fra le dita, di quel poco, ma di quel poco, facendo colare il miele un po’ per terra, un po’ sui pantaloni, un po’ sul coperchio della pentola, un po’ sul piano della cucina. Cerco di spostare la pentola con l’anca, ma nel farlo spingo altre cianfrusaglie accumulate sul tavolo, rotoli di carta, bollette, forbici, pezzi di carta; le cose raggiungono sempre i bordi, e cadono. Cerco di rallentare con un piede la caduta di un oggetto fragile, tipo, una lampadina appoggiata lì per caso, inutile dire come va a finire. Dopo aver riempito la pentola di acqua la trasporto a fatica verso il fornello, ma il posto è occupato da un pentolino che non avevo notato prima, anzi che prima non c’era proprio, si è materializzato lì nel frattempo, e devo inventarmi un altro incastro sul momento mentre un tovagliolo rimane attaccato al gomito per via della lana del maglione, cerco di spostarlo col gomito non potendo usare le mani sporche di miele e briciole di pane. La spina del frullatore sta quasi per cadere nel lavandino pieno d’acqua e di stoviglie, mi allungo per prenderla al volo ma la spina ferma la sua caduta sullo spigolo di un mobile accanto all'acquaio, cigolando in bilico, sembra un risolino.
Nulla è inerte, gli oggetti detestano me e tutti i miei sforzi, la casa è viva, lo sportello aperto del forno contro cui sbatto è soltanto uno dei suoi pistilli. Mi sento uno scarto di Pongo pressato dall’accumulo, dal calore, dall’entropia. Quando la mano si muove per aprire il mobile dei bicchieri sopra al lavandino e sbatte contro una schiumarola che cade fragorosamente spostando di qualche millimetro una spugna leggerissima ma in grado di far cadere un tagliere, che colpisce una bottiglia vuota di salsa di pomodoro che a sua volta si schianta su un bicchiere che si trova nell’acquaio; il rubinetto del lavandino che si apre giusto quel poco da far uscire un filo di acqua o giusto quel tanto da centrare il lato concavo di un mestolo e schizzando acqua ovunque. Quando una forchetta rimane incastrata coi denti in una griglia da forno sul fondo dell’acquaio, un misero bottone si manica di camicia si aggancia alla posata e un angolo di griglia apre il rubinetto dell’acqua bollente, la camicia si bagna e il braccio schizza come una fionda per il bruciore e colpisce un boccale con sopra un pacco di farina, il gomito sbatte col nervo sullo spigolo del frigorifero, il pacco di farina si spacca sul pavimento.
Cercare in rete “avere gli oggetti contro” dà come risultato solo pagine di pronto intervento contro fatture e malocchio, quando oggetti di qualsiasi natura vengono usati per apportare nocumento alla persona, o viceversa per attirare energia positiva, come talismani.
Fossero solo gli oggetti, poi. Quando sei a colazione o al ristorante con qualcuno e hai la bocca piena e c’è confusione, la persona con cui sei ride guardando il telefono, poi gira il telefono verso di te per mostrarti una foto, ma in quel momento lo schermo va in blocco e tu non riesci a vedere la foto, glie lo vorresti dire ma hai bocca piena e le mani sporche, la persona che è con te non capisce, pensa che sei riuscito a vedere la foto e tira via il telefono continuando a parlare di quella cosa e la confusione aumenta, la persona insiste a parlare della foto che tu non hai visto. Quando entri nella vasca da bagno alzando la gamba convinta di superare il bordo e invece sbatti forte il piede, forte a dei livelli assurdi che dici Ma come Cristo è possibile. Possibile che siamo sempre noi a sbagliare i calcoli, le distanze, le misure? Gli oggetti sono contro di me, e contro te, e spesso anche tu ed io siamo contro. Io che afferro con una mano una pentola pesante appena tolta dal fuoco e in pochi secondi sempre più ustionanti vado incespicando verso l’anta di un mobile per prendere una presina e tu che ti fermi proprio lì davanti, con la ciotola di melanzane che abbiamo tagliato quindici minuti prima e che sono già annerite, mi blocchi la strada, e non riesco neanche a dirti di aiutarmi.
In questi accadimenti se ne stanno accoccolati tutti i tuoi micro-traumi. C’è mia madre nell’astio dei cenci appeso ai ganci che non mi fanno aprire il mobile dei vassoi e dei coperchi, c’è mio padre fra le parti della chiusura ermetica del frigorifero che non vogliono aderire, ci sono io nei legumi grigi dell’altro ieri che ho ingurgitato a cucchiaiate dalla scodella. Ci sei tu sul biglietto giallo con uno smile disegnato a mano e la scritta incomprensibile di una cosa che mi chiedi di comprare assolutamente. Ci sono io, ci sei tu, sudditi di un tipo di amore attorno al vaso di vetro delle rose dal bocciolo che perde vigore e il cui rosso è già annerito. C’è una folla nella pornografia del giorno che fa dell’inutile la cosa più urgente. C’è la fortuna di non essermi perso, come temevo, fra questi oggetti mezzi frantumati e piccole ossa del mio corpo che fanno male. C’è un sole sorvegliato sulla crosta vivente che scintilla nel freddo, la luce che taglia in due la cucina. Ogni cosa – anche un libro incastrato nel cassetto sotto al letto o il sugo che bolle – discende da questo caotico furore dagli occhi bianchi, ogni cosa, compreso il sugo, è un astro in caduta libera che ha ancora soltanto qualche miliardo di anni di vita.
La psiche diventa una fornace. Pretendo un dio che non mi bruci la cena e che si spalanchi fino in fondo come le porte della doccia di una casa nuova, che si incarni in una griglia inossidabile, in una teglia non deformata, in un pavimento senza alterazioni a prova di struscio di sedia, in una maniglia misericordiosa con le giacche, in un muro che non graffi le nocche delle mani, in angoli di mobili bassi che non colpiscano questa minchia, che si riveli nell’apparizione di un cappello svanito, che come il caldo dei caloriferi funzionanti d’inverno renda certo il dato che questo è il miglior posto di sempre. Così mi calmo, perché non ho altre possibilità. Mi passa la fame scellerata, spezzo l’indesiderabile angoscia motrice delle nefandezze, rallento, chiedo scusa di tutta la brama e delle parole oscene ai miei nonni, ai nonni delle mie ex e a quelli di tutti i miei conoscenti, ai morti e ai vivi. Alla fine, sono salvo. È tutta elettricità anche se sembra un esercito di demoni. La stessa elettricità che mi permette di non sprofondare nel pavimento.