Redenzione immorale
Lo sgocciolio dell’acqua che cola e cade dai tralicci di acciaio sovrasta lo scroscio costante della pioggia là fuori. Ho eletto questa impalcatura a rifugio temporaneo, o forse è stato il caso a sceglierla per me; non che le impalcature manchino in questa città-cantiere. Rigagnoli d’acqua scorrono già lungo la strada, si formano pozze nelle crepe dell’asfalto, piccoli mulinelli. Il cielo dello stesso colore del cemento è nascosto da strutture altrettanto grigie e buie. I piani metallici dell’impalcatura rintoccano sotto alle gocce, sempre più grosse e numerose. Un lampo. Il tuono lo segue a distanza, un brontolio lontano che mi rassicura. La pioggia si infittisce e si fatica ormai a scorgere l’altro lato della strada. Le gocce si intrufolano fra la parete dell’edificio e l’impalcatura, schizzi violenti rimbalzano su ogni superficie disponibile, sulle pozzanghere sempre più larghe. Mi sento assediato anche qua sotto. Per strada un’automobile procede lenta, gli pneumatici alzano piccole onde di acqua sporca, uomini corrono di qua e di là dalla strada, diventano sagome scure, scompaiono nella pioggia proteggendosi il capo con un cappuccio o una busta, pochissimi hanno portato l’ombrello con sé. Questo mi fa sentire meno solo, nonostante sia l’unico a essersi fermato qua sotto. Sbircio alle finestre sporche, sentendomi giustificato dal contesto nel mio ruolo di guardone. I vetri opachi rivelano un piccolo soggiorno anonimo, riempito di mobili di compensato intercambiabili, un divano che ho già visto duecento volte, alle pareti foto in pose e luoghi fin troppo noti: una coppia di trentenni sorride sotto alla Torre Eiffel, davanti al London Bridge, sulle spiagge di Mallorca. Persino la polvere sul pavimento e l’intonaco scrostato mi danno una sensazione di deja-vu. Intravedo un angolo cottura IKEA dalla finestra accanto, ma preferisco rimanere concentrato sul soggiorno. Il divano, grigio e largo come un letto, è occupato da un uomo sulla quarantina, barba incolta, mascella squadrata. Lo sguardo non lascia trasparire emozione, l’unico movimento sul viso sono i riflessi del televisore, i colori che cambiano fin troppo rapidamente. Le pupille pigre non seguono la dilatazione richiesta dalle variazioni di luminosità, l’uomo batte a malapena le palpebre. Non riesco a capire cosa stia guardando solo dalle forme proiettate sui suoi zigomi bassi, sul suo doppio mento. Immagino che non abbia importanza. Sulla maglietta Marvel sono accumulati i resti di un pasto, le gambe nude sono appoggiate su un poggiapiedi sdrucito. Per terra noto altre briciole e una ciabatta di plastica, non so dove sia l’altra. Una goccia mi colpisce il capo e mi riscuote dalle mie osservazioni. Faccio un passo indietro e mi tocco la testa con le mani, prima di rendermi conto che le gocce cadono ormai solo dal livello superiore dell’impalcatura. Le insegne al neon si riflettono nelle pozzanghere, là fuori non piove più.
Mi affaccio cautamente sulla strada, osservo le sfumature cineree delle nuvole gonfie e noto per la prima volta una protuberanza sporgere dal piano di sopra: una mano abbandonata oltre il bordo d’acciaio si fa veicolo per l’acqua, che percorre il dorso peloso fino alla punta delle dita e cade giù a terra in un rivolo quasi continuo. Esco dal mio nascondiglio per osservare meglio il corpo pesante accasciato al piano superiore dell’impalcatura, la schiena appoggiata contro un traliccio, l’acqua che cade fin dentro la salopette, il sangue che viene lavato via dai residui della pioggia.