Vi ho visti entrare nella stanza con i giacconi troppo pesanti per la giornata di sole, goffi e ingombranti nei vostri corpi cresciuti un po’ a caso, sicuramente all’improvviso.
Mi avete guardato con l’aria di condiscendenza con cui si guardano le cose che non ci piacciono, ma con le quali bisogna avere a che fare. Vi hanno istruiti ad essere educati, a salutarmi con rispetto, a non commentare troppo rumorosamente il fatto che sono una ragazza e che, in apparenza, non sono nemmeno troppo più grande di voi. Ma ai più sfacciati di voi è sfuggito un sorriso e una botta di gomito a quello in piedi di fianco. Il sorriso vi è scomparso quando vi ho chiesto di dividervi in due gruppi, per un attimo si è disegnata una punta di smarrimento sulla faccia: quale sarà la scelta più conveniente, restare qui o andare nella stanza accanto? Dopo un attimo siete tornati spacconi e rumorosi e vi ho dovuto contare, dividere a caso e portare la metà di voi nella stanza adiacente.
Lo spazio è poco, le sedie sono attaccate le une alle altre e voi avete gambe lunghe che si infilano tra i tubi di metallo e i piedi dei vostri compagni.
Ci è voluto un momento e che alzassi la voce. Voi non lo sapete, ma io ho dovuto prendere un respirone ed indossare la faccia più tosta che ho, perché lo so che non fate sconti a nessuno, figuratevi a me, che ho messo il blazer e i tacchi per non sembrare una di voi.
Vi ho inondato di parole che per voi non volevano dire nulla. Qualcuno ha tirato fuori il telefono con l’aria di chi non trattiene più la noia; gli ho fatto una domanda diretta, ha balbettato una risposta e lo ha riposto.
Vi ho parlato digitalizzazione, di Realtà Virtuale. Ho domandato se qualcuno sapesse cos’è la Quarta Rivoluzione Industriale. Mi avete guardato come se fossi un alieno, poi qualcuno ha preso coraggio e, ad alta voce, ha detto: “è la fabbrica con i robot”.
E lì ho visto dov’è che iniziamo a fallire, ho capito che nessuno sta facendo un buon lavoro. Che siamo tutti talmente concentrati a stendere i cahiers de doléances del presente da dimenticarci di darvi gli strumenti per spuntare almeno qualche voce dalla lista delle cosechenonfunzionano. Che ce ne stiamo inermi e impreparati, esasperati. Condannati a non avere vie di salvezza, condanniamo anche voi ad un racconto di un dramma che è il nostro, ma che, se riuscissimo a guardare al di là della disperazione, potrebbe non essere anche il vostro.
La rivoluzione ribalta l’ordine costituito e tutto quello che prima era male adesso, se non è bene, è comunque opportunità di ridisegnarne i confini. Voi siete quelli destinati a questo compito. E non lo sapete. Non ne avete idea. Perché nessuno ve lo ha spiegato.
Nessuno vi ha spiegato che le “fabbriche con i robot” esistono da molto prima che voi nasceste. Nessuno vi ha spiegato che il fatto che non esista più il lavoro dei vostri padri e dei vostri nonni non vuol dire che non esista più lavoro. Nessuno vi ha spiegato che chiunque di voi in questa stanzetta con le sedie appiccicate vale, in potenza, più di quanto io o i vostri insegnanti varremo mai.
Metà del tempo a disposizione è passato. Ho premuto play e sullo schermo è apparso un video: c’è una macchina lussuosa e lucida che sfreccia in un bosco, poi in un deserto. Vi siete dati di gomito, qualcuno si è piegato in avanti per vedere meglio. Un artigiano sullo schermo ha usato uno scalpello per cesellare la scocca anteriore su un modello in legno, una mano ha disegnato un parafango su un tablet. “E chest’ quann’ t’a può permettere”. È comparsa la linea di produzione, un operaio con degli occhiali strambi ed ingombranti compiva una sequenza di azioni che gli appariva direttamente sulle lenti. Vi ho spiegato che, in quel modo, l’esecuzione di procedure diventava più sicura.
“Però – ha detto uno di voi, alto e magro, con i capelli corti e la faccia pulita – così il lavoro che prima facevano in cinque mo lo fa uno solo. Gli altri quattro non servono più”. Lo ha detto con un sorriso doloroso, di chi si sta facendo coraggio ed ha paura di dire una fesseria, gli occhi che quasi si scusavano; mi ha stretto lo stomaco. Quello del telefonino ha ridacchiato un perculo. Ho spiegato che, è vero, probabilmente sulle linee di produzione serviranno meno operai, ma serviranno più persone capaci di realizzare un software che aiuti quell’unico operaio superstite a lavorare meglio e con più sicurezza. Vi siete fatti attenti, perché voi, quella roba dei software e dei codici, la sapete fare. Ve la fanno fare in classe e a casa tutti i santi giorni, vi fa schifo, non vi serve a niente. “Ma i quattro operai comunque non serviranno più”.
È una logica stringente, la vostra. È la logica dei vostri padri, che devono farsi il culo per comprarvi le scarpe nuove, forse anche per mettere il piatto a tavola. Nessuno vi ha spiegato che la logica dei vostri padri non è quella con cui ragiona il mondo che è arrivato dopo di loro.
Mi sento inadeguata, io sono una privilegiata. Ho già scavalcato il muro, anzi, ci sono a cavalcioni sopra e riesco a vedere sia di qua, dove siete voi, che di là, dove ancora non siete arrivati e dove i vostri insegnanti e genitori non hanno gli strumenti per farvi arrivare. Provo a spiegarvelo, il tempo a disposizione sta finendo. Vi chiedo cosa pensate di fare nel futuro, mi becco un’occhiataccia dalla professoressa, quando mi faccio scappare che le opportunità di lavoro oggi non hanno per forza bisogno di laurea. Mi guardate con meno condiscendenza di prima.
Quello col telefonino continua a borbottare, si agita sulla sedia. I minuti non gli passano mai, ma in realtà mancano pochi minuti. Lo affronto: “E tu, hai pensato a cosa farai?”
“O’ fravecatore”.
Bussano alla porta.
Vi tirate in piedi stiracchiandovi, le gambe lunghe e intorpidite scavalcano le sedie. Mi sorridete e mi stringete la mano. Vi accompagno nella stanza accanto, dove vi faranno provare gli occhiali ingombranti che rendono inutile il lavoro dei vostri padri.
Il tempo è finito.