Abbiamo litigato un giorno di luglio.
Faceva caldo sulla salita di Villa Borghese, un caldo senza tregua. Io avevo i jeans, perché, come al solito, avevo vergogna ad andare in giro in pantaloncini, per via delle cosce troppo grosse che nei quartieri ricchi, non so per quale ragione, mi sembrano sempre essere ancora più grosse.
I jeans si attaccavano addosso e c’era un gran cantare di uccelli. In un mezzogiorno di luglio a Villa Borghese, con l’asfalto che si squagliava sotto i piedi e nemmeno un maledetto autobus.
Volevo andare a vedere la Paolina Borghese del Canova. Il desiderio che mi avevi fatto venire da un po’ era diventato un capriccio da assecondare in una mattina di luglio, con le ombre corte e l’aria spessa ed il frusciare delle foglie dei platani. Chissà come facessero poi a muoversi, quelle foglie, nell’umidità pesante ed immobile.
Faceva caldo ed io non avevo con me la bottiglia d’acqua, perché ci sarà una fontana oppure la compriamo per strada e poi la devi smettere con questa fissazione di portarti una bottiglia d’acqua dappertutto. Ma a luglio, su quella salita che a me sembrava non finire mai non c’erano fontane e nemmeno un ambulante per comprare mezzo litro a due euro e cinquanta. E a me è iniziata a girare la testa ed è stato lì che abbiamo iniziato a litigare.
Quando siamo arrivati in cima, il museo era chiuso per non ricordo quale motivo e io mi son dovuta sedere su una di quelle panchine di pietra liscia, che chissà da quanto tempo sono lì, chissà in quanti ci si sono seduti sopra. Ma quel giorno non c’era nessuno. Ho provato a respirare profondamente e non mi è venuto tanto bene; la testa girava più forte e il cuore sembrava pompare a vuoto, come se tutto il sangue fosse sceso giù nei piedi stretti nelle scarpe da ginnastica e nelle mani con i palmi sudati e le vene gonfie.
Ed è stato a quel punto che ho iniziato ad arrabbiarmi davvero, io volevo solo stare con te ed imparare a conoscerti meglio e soddisfare un capriccio che mi era venuto per colpa tua. Ma non riuscivo più ad alzarmi da quella panchina di pietra. E quando ho provato ad addentare un pezzo di pizza che non so come mi era arrivato in mano, ho sentito l’acido in bocca ed una grande nausea. Tu eri là, ma io ero da sola. Te ne fregavi. Della mia nausea, dei miei jeans umidi di sudore, del cuore ribaltato in gola.
È stato lì che abbiamo litigato.
Ho deciso che non avrei voluto vederti, almeno per un po’. Ed almeno per un po’, mi sono rifugiata al mare. Ho fatto a meno di te, del tuo senso di scoperta, dell’aria sorniona di chi ti percula sempre un po’, della tua bellezza evidente e spinosa.
Mi sono riavvicinata per amore e perché la libertà che cercavo mi sono illusa di averla trovata lontano dal mare. Ho giocato una partita a carte con le mie paure. Sul tavolo da gioco ho vinto motivi di terrore ben più temibili. Me li sono messi sotto braccio e mi sono illusa di averli domati, li ho portati in giro. A loro devo la spavalderia arrogante che mi ha fatto ritrovare il coraggio, rimasto abbandonato un giorno di luglio su una panchina di pietra a Villa Borghese.
Ho cominciato a non pensarti più come si pensa al nemico. Mi hai dato rifugio in qualche sera nera, ho iniziato a capire che non mi avresti lasciato sola, che potevo contare su di te. Che forse non sarei mai stata la tua migliore amica, ma nemmeno tu lo eri per me. Potevi tollerare di avermi intorno, nelle periferie del tuo tempo e del tuo spazio. Ero troppo distratta per accorgermi che non solo stavamo prendendo confidenza, ma che eri il motivo che mi impediva di soccombere ai mostri che mi ero messa in tasca e che non volevano lasciarmi più.
Abbiamo fatto pace in un caldissimo pomeriggio di agosto, quando ho deciso che ero stanca dei mostri e dei jeans. Ho infilato gli shorts e mi sono seduta sull’erba accanto al laghetto dell’Eur, accanto a un paio di gambe lunghissime e abbronzate.
Abbiamo fatto pace davanti al liutaio iraniano in via del Cedro, camminando a passo strascicato per Via dei Cappellari. Abbiamo fatto pace nei giardini di Castel Sant’Angelo in autunno e durante un tramonto invernale al Pincio. Abbiamo fatto pace bevendo tisane in un bar di Monti, in delle notti gelide avvolte nelle sciarpe, facendo foto al Colosseo Quadrato, parlando con un anziano signore alla Garbatella, bighellonando nei negozi di Termini che sono ormai diventati casa. Abbiamo fatto pace quando l’ho visto arrivare in mezzo alla folla davanti al Vittoriano.
Abbiamo fatto pace una mattina di primavera. Sulle scale di Piazza di Spagna mi sono seduta tra i turisti, per terra, rannicchiata contro le scale di pietra. Ho tirato fuori il libro dalla borsa, l’ho aperto sulle gambe e non l’ho letto. Eri dorata. Profumavi di petunie e di sudore. Negli auricolari Damien Rice cantava, chiedendo ad Amie di credere che la fine del secolo portasse un cambiamento. Forse siamo un po’ in ritardo. Forse invece no.