Un muro alto quattro metri divide un mondo da un altro. Sopra splende il rosa del giorno che muore, il blu della notte incipiente. Davanti ci sono io e altre persone sono intorno a me, nessuno sa bene cosa dire. Dietro sembra non esserci nulla, nemmeno se ti arrampichi sulle pesanti grate antistanti riesci a vedere oltre. Quindi non c’è nulla, perché nulla si vede, solo il muro. Poi arrivano voci, urla antiche di oltremondo, canti disperati di libertà, richieste di aiuto e parole vecchie come le montagne. Ad un tratto cessano, come sono nate e ritorna il silenzio, ma l’eco continua imperterrito a risuonare, per ore e ore, in tutto l’assordante fragore dell’ammutolirsi. Il muro è bianco, asettico, rimbalza indietro qualsiasi pensiero, qualsiasi traccia di vissuto. Ogni tanto si tinge di cobalto, dei lampeggianti delle camionette e del loro continuo infrangersi, e poi di rosso, di fumogeni densi innalzati al cielo. La notte invece si accende insieme ai lampioni e il biancore diventa accecante, stridente. Qualche volta compaiono anche delle scritte, lemmi che parlano mille lingue, il cui significato è iscritto nel vibrare stesso della cassa toracica , ma poi spariscono, cancellate con solerzia. Ci ripasso dinnanzi, più volte, quotidianamente, distratto, di fretta, mi ci fermo impaurito, lo osservo minuziosamente, il muro, ma non mi risponde, non dice nulla, sta lì e basta. Poi ancora lo scorgo di sfuggita dal finestrino dell’auto; il monolite è ancora nello stesso posto, certo nel proprio stare. Un giorno ho visto salire del fumo da dietro il muro, del fumo e basta, non una parola, nessun suono, solo un vorticare nero verso il sole. Poi più nulla, il fumo è cessato ma il muro è rimasto lì. Con quanta violenza permane il muro, quanto è brutale nella sua incrollabile certezza, quanta arroganza nel suo stare lapalissiano, nell’assioma della sua presenza. Fa tanto male che un giorno davanti al muro ho pianto. Poi la notte ho dormito benissimo e me ne sono vergognato quando ci sono ricapitato di fronte. Di nuovo le voci, senza volto, senza età o nome, nude nella loro componente umana, si dispiegano in tutta la loro potenza. Se vai abbastanza in là, verso la boscaglia che costeggia la strada, oltre il muro in realtà un po’ ci puoi vedere: sul candore del cielo invernale si staglia un’alta rete, la si intravede ingabbiare i cortili, e poco più avanti tetti rossi sbucano appena. È morto un uomo dietro quel muro, Vakhtang Enukidze cittadino georgiano di anni trentotto; nessuno sa come, nessuno ha visto nulla, c’è un’inchiesta aperta. C’è stato un morto ma non è successo nulla, perché si sa, dietro il muro non nulla succede. Stasera il cielo è terso e se alzi gli occhi puoi disegnare il carro maggiore nel buio della notte. Cammino con fare trasognato, penso alle mie cose, le mani rintanate nelle tasche del cappotto, la bocca nascosta dietro il bavero a riparo dal freddo. Davanti al muro ci passo svelto, lo sguardo fisso sull’asfalto. Ogni tanto appare un auto, mi sfreccia accanto e poi affievolisce in lontananza. Infine nuovamente cala la scure del silenzio.
Il CPR di Gradisca d’Isonzo è aperto da poco più di un mese. L’autopsia ha sentenziato morte per edema polmonare, tuttavia le cause del decesso rimangono ignote.
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