Orizzontale. In una bolla, leggero, sospeso galleggia. Lontano da sé e dal suo corpo. Il ricordo di una sensazione ormai distante del freddo metallico e pungente sulla schiena. Aveva lasciato andare ogni percezione cullandosi in un vuoto né bianco né nero, lasciando che i pensieri gli scivolassero affianco senza afferrarli e rinunciando a qualsiasi forma di giudizio. Tra questi pensieri serpeggiano visioni liquide di onde in mari di plastica, stelle che affogano, alberi morti e senza rami, velluto rosso, capelli biondi, zecche e navi. Libero da se stesso, viaggia risalendo un tunnel profondo da cui non ha intenzione di uscire. Resistere richiede uno sforzo sempre maggiore man mano che le percezioni bussano alla coscienza sospesa ai confini della realtà. Una linea vermiglia sul petto. Trabocca di calore avvolgente, gli scivola addosso accarezzando e colorando di rosso la pelle bianca di luna, per poi dividersi come un bivio, a “Y”. Inspira. Espira. La sensazione è quella di avere il vento dentro e il panico furioso arriva e l’abbraccia. Ma rimane immobile, il respiro lento e i pensieri lontani.
Il turbinio di percezioni stipate e sigillate al di fuori continua a intervenire ed evitare che dei frammenti sguscino via sembra impossibile. Sente un dolore che timidamente si affaccia in cerca di qualcuno che lo ascolti, disperato. E una vibrazione, una canzone. Sente la musica e una voce canticchia a tratti: “Ti rivedo ancora…nel vento…ma nei verdi occhi tuoi non c’è fortuna…per chi cerca un domani vicino a te…non servirà aspettarti perché io so che tu, tu non verrai….negli occhi tuoi ci sarà un’altra luna e un altro amor…”. Si dimentica di non giudicare e il corpo gli ricorda che quella canzone non gli piace, nemmeno un po’. Così i nervi si attivano come nel tentativo di creare uno spasmo muscolare o una meno ambiziosa pelle d’oca, ma la carne non risponde, confusa da influenze superiori alla volontà della mente che la possiede. Il dolore sale. Sente di essere un corpo nudo, un corpo aperto. Al suo interno forze sconosciute si muovono e violano una terra consacrata: un corpo che percepisce se stesso come reale, importante, irrinunciabile e insostituibile. Quel supplizio suona come una bruciatura fredda. Rimane inerme. Realizza che non vale la pena patire, non passerà. L’unica soluzione è tornare in quel limbo di calma e di niente da cui tutto questo stava cercando di strapparlo. Fluttuare e viaggiare fuori dal suo mondo e dai suoi confini. Si lascia invadere da un’aria nuova, frizzante, inebriante, ferrosa. Eleva lo spirito oltre e spingendosi fuori dal corpo produce una forza uguale e contraria che fa aderire la spina dorsale alla superficie sottostante. Da lì potrebbe girarsi, guardarsi e dare attenzione alle grida della carne stremata, e invece le luci catturano la sua attenzione, uno scintillio irresistibile. Il dolore lo risbatte giù, più forte di prima, così nero da spezzargli la schiena, così caldo da fargli bollire il sangue nei polmoni, da fargli dimenticare di avere mai avuto una faccia, un viso, uno sguardo. Distingue la presenza di un taglio profondo che dentro crea un disegno sterile e sottilissimo come la lama di un bisturi.
Affonda una mano tra gli organi per farsi spazio. “Sembra essersi mosso” pensa. Ma è un pensiero ricorrente, ogni volta che avvicina le mani guantate alle membra anestetizzate. Non aveva mai sbagliato un dosaggio e tutto aveva sempre funzionato benissimo. Non era la prima volta che interveniva su quel corpo, e le numerose cicatrici lo confermano. Molte volte le operazioni erano state inutili, gocce d’acqua dolce in un oceano irrimediabilmente salato. In ogni caso occasioni irrinunciabili. Continua a mettere in ordine davanti ai suoi angusti occhi ghiaccio ogni singola mossa, i passaggi già eseguiti e quelli che seguiranno, ricordandosi che l’entità dei danni non gli permetterà per molto di seguire il programma e arriverà il momento di improvvisare. In quel momento dovrà essere freddo e sterile. I guanti blu si inabissano tra gli organi, come cercassero un biglietto del treno già timbrato in fondo alle tasche. Nel tentativo sbatte e sgroviglia oggetti inaspettati, accumulati lì nel corso di una vita, custoditi in disordine e in parte dimenticati. Questa manovra gli costa affanno, gli taglia il respiro. Un retta incidente che lo porta al di là del confine: sente male. Era quello il momento di improvvisare ovviamente. Impasta tutto. La precisione del bisturi cancellata da quell’ammasso di rossi e marroni di bellezza sublime. Impossibile rimettere in ordine, ma deve trovare ciò per cui smania, causa e fine delle ferite. Il sangue scivola in ogni angolo, in ogni fessura, tra i mal di pancia, le nausee e la tristezza. Non c’è più spazio per niente ormai, nemmeno per quelle mani sleali.
Sopra la mascherina gli occhi ghiaccio traballano e si rovesciano, tra le ciglia un fuoco. Sotto la mascherina non c’è più una bocca ma una linea indecisa di sangue e un ultimo suono strozzato ricorda delle parole “..ora piango…per te..”, mentre la testa indietreggia, pronta ad abbandonarsi all’orizzontalità che lo attendeva e a cui con cura e dedizione si era preparato nel corpo e nella mente.
Non c’è più niente da cercare. Si è spento. Uno sguardo che non vede più il luccichio fascinoso che lo sovrasta. Gli occhi ghiaccio sono solo uno specchio,un po’ più freddo del gelo che li ha sempre fatti spiccare. La musica suona facendo vibrare un orecchio che non comunica a nessuno a quale ritmo freme. Il freddo del tavolo operatorio sembra ora completamente trascurabile per quella pelle che sorda non ascolta il rumore del calore abbandonarla con riluttanza. Aghi, lame e garze in pozze di sangue sparse leggeri galleggiano.