Silenzio
Stava ascoltando la musica con le cuffie, accartocciata sul divano. I giorni erano misurati dall’ansia e dal silenzio. Scorrevano parole come rotoli di carta asciugamani: in televisione sui giornali, per strada. Troppe parole che non le andavano giù e le provocavano solo una forte rabbia, un senso di impotenza che le facevano urlare i pensieri nella testa. È difficile pensare che possa sempre esserci qualcosa dopo, che tutti siamo diversi, che ogni cosa possa prendere il posto di un’altra in modo così veloce.
C’è un giorno in cui si fanno piani di accumulo e si sogna l’Islanda. Il giorno dopo tutto si ribalta, per cui i sogni tornano nascondersi nel cassetto, nel fondo, dove si accumulano gli oggetti più inutili.
Allora si chiudeva tra le pagine dei libri, volava tra le storie e si metteva in isolamento dalle parole, dalle grida e dagli allarmi. Dalle voci.
Non voleva neanche più sentire le campane della domenica. Ogni parola, ogni suono, venivano tamponati dal suo silenzio.
Il distacco era inevitabile e le notti erano costruite su traballanti fondamenta di sudore e sogni disturbati. La mattina gli occhi gonfi riportavano lo sguardo lontano, a pensare a terre, storie e luoghi che vivevano solo nei libri. Non c’era motivo di rimanere inermi e non era quella la sua intenzione. Si era creata un piano di salvataggio, per dosare le parole e i gesti, per pensare in solitudine a come il corpo cambia, a sentire il ritmo del respiro e il battito del cuore.
Era arrivato, ad un certo punto, il momento in cui aveva deciso di essere il centro di sé stessa. L’allarme scattava mentre leggeva un periodo in un libro, mentre la stagione cambiava e nessuno se ne accorgeva. Sorrideva, a volte le scendeva sul viso una lacrima. Si trovava spesso a parlare da sola. Sottovoce, sotto coperta. Teneva le ginocchia attaccate al petto, gli addominali che tiravano. Talvolta le si bloccava lo sterno e faticava a respirare.
La mattina metteva le sue scarpe da corsa arancioni e scappava in mezzo al verde. Quando arrivava alle risorgive appena fuori città, si fermava, immergeva la testa e il viso sudato nell’acqua fresca e si riposava sotto gli alberi. Ascoltava i merli che parlavano tra di loro, osservava i lombrichi che uscivano dalla terra e il pluff delle rane che si tuffavano in acqua.
L’aria era buona, frizzante. Faceva dei gran respiri e sentiva il borbottio dello stomaco che le saliva alle orecchie. Guardava i colori che cambiavano, ascoltava i rumori; accordava il ritmo del corpo con ciò che la circondava. Si era trovata ancora una volta in compagnia della sua solitudine: un tuffo a gambe dritte nell’acqua trasparente.
Faceva attenzione ad ogni suo gesto e ne vedeva i riflessi in quelli delle persone che incontrava. Riduceva le parole al minimo, aveva quasi paura di fare rumore; allora appoggiava i suoi occhi su quelli degli altri e annuiva piano.
Chi la poteva rappresentare? Chi poteva prendersi carico di esprimersi per lei? Nessuno. Non c’era possibilità di scappare dalle indelicatezze e dalla brutalità delle parole, dalla paura di far soffrire gli altri, se non con il silenzio.
Niente dolore, aveva pensato. Diceva: tocchiamoci piano.
Si sentiva pericolosa, il controllo dei gesti e delle parole era diventato quasi maniacale. L’unica soluzione che vedeva era nascondere tutto infondo allo stomaco. La bile saliva e lei la ricacciava giù con il Maalox. Aveva perso altri cinque chili, mandava giù poco o niente ma quando le tremavano le mani si sarebbe mangiata anche il tavolo della cucina. Anche il gesto di ingoiare qualsiasi cosa commestibile era diventato oggetto di attenzione e di cura, non perché vi fosse un problema con l’amore per la pastasciutta, ma piuttosto con l’atto di condivisione dei momenti in cui ci si raduna intorno ad un tavolo e si condividono parole. Tante parole, tanti pensieri più o meno filtrati. Pensieri gettati a caso come spunti per argomentazioni. Quando il discorso rimbalzava su di lei, liquidava tutto con due brevi frasi e abbassava gli occhi.
Rimaneva poco, così poco, che stringeva forte le mani e ne seguiva i segni del loro dorso. Si toccava i muscoli della schiena, abbassava la testa sotto la doccia e lasciava che l’acqua calda piovesse sulle spalle, piccoli buffetti per dire: io sono presente. La nuvola che copriva i pensieri era fitta di pioggia, tra sprazzi di sole che invadevano talvolta pensieri che sfuggivano veloci come erano arrivati.
Allora la notte piantava il naso sul cuscino e stringeva i denti respirando forte, fino a che l’ossigeno si riduceva.
Poi alzava la testa, si sedeva con la schiena appoggiata alla testiera del letto e si faceva coccolare dal buio e dal silenzio.