Solo loro due
“Mi scusi, ma temo manchino i pantaloni”
Allargo di più il sacchetto di carta inclinandolo e le mostro gli indumenti.
“Non è possibile”
“Aspetti, ricontrolliamo tutto insieme”
Poggio il sacchetto sul letto vuoto, già disfatto, c’è solo l’impronta del corpo sul materasso, e comincio a estrarre gli abiti: “Vede? Abbiamo l’intimo, i calzini, la cravatta, la cintura, la camicia e la giacca, ma non ci sono i pantaloni”.
Sospira e si volta verso l’armadio, cerca in modo scoordinato e privo di logica, rovista in mezzo all’armadio e sento il suo pensiero fisso: papà è morto, papà è morto. “Posso aiutarla?”
“Sì, grazie, io non so più… io non so dove siano i pantaloni, ero sicura fossero qui, l’ultima volta per il suo compleanno erano qui, esattamente qui, ecco, vede?” E comincia a piangere.
Sguardo basso, mi avvicino all’armadio e passo in rassegna gli ometti, seguendo la mia ferrea logica de ‘i completi stanno sulle grucce’, poi arriva il marito e mi aiuta anche lui nella vana ricerca.
Lei farfuglia qualcosa, si mette le mani nei capelli: “Non ci sono i pantaloni, come facciamo? Non ci sono i pantaloni. Possiamo mettergli dei jeans?”
“Guardi, non c’è alcun problema, solitamente suggerisco di far indossare il capo preferito, il completo è perfetto, ma va benissimo anche camicia e cardigan con jeans. È una questione di gusti. Suo padre come si vestiva?”
Il dolore è sordo. Latente, atroce, lo sento, se lo porta addosso come un profumo. È un rumore costante nella testa, non dà tregua. Figlia unica, immagino. Sola con il marito e il padre. La madre se n’è già andata prima. Chi ha fratelli prova un dolore più acuto, che prosegue a picchi, è più altalenante, ci sono momenti di grande lucidità – quando si fanno forza per gli altri, per non dare a vedere, per sorreggersi – e momenti di immensa tristezza; le famiglie numerose sono rumorose, appena crolla uno crollano tutti, e poi appena uno si riprende, si riprendono lentamente tutti, ma è un dolore che funziona come le contrazioni, è intermittente e ti lascia qualche minuto per respirare. Invece lei, no, lei non può respirare.
Tace, non riesce a rispondere e interviene il marito: “Preferiva i jeans per tutti i giorni, ma nelle occasioni importanti indossava il completo”.
Io la guardo e cerco i suoi occhi, cerco l’assenso della figlia, ma è persa nel suo dolore: “Se è così, signora, posso aspettare. Andate a recuperare il vestito mentre io aspetto giù in reception.”
“Ma lei?”
“Io vi aspetto”
È indecisa, si torce le mani, guarda ancora nell’armadio, prova ad abbinare jeans e camicia, ma i colori non le piacciono e non vi sono golf decenti da presentare, ci sono solo le felpe orrende da casa di riposo.
Siamo in una impasse, ma dobbiamo uscirne. Mi azzardo e la tocco, poggio la mano sulla spalla “Signora, per me non c’è problema e le assicuro che il tempo di attesa non verrà conteggiato dal mio titolare, ci penso io. Non ho altre urgenze al momento, quindi, decida liberamente cosa preferisce fare.”
Mi guarda, finalmente presente a se stessa, e dice, rivolta al marito: “Andiamo”.
Lentamente mi dirigo verso l’ascensore, attraverso i corridoi del piano delle ‘Primule’, mentre un anziano grida a gran voce “Aiuuuto”, c’è sempre qualcuno che chiede aiuto nelle rsa, come al pronto soccorso o in psichiatra, e fa strano pensare al reparto ‘Primule aiuto’ o ‘Aiuto primule’. È difficile non rispondere a una richiesta del genere, ma vedo che sta già arrivando, sbuffando, l’infermiere, così tiro dritto con lo sguardo sempre basso, perché ormai lo sapranno già tutti, almeno quelli ancora lucidi, che quello della 326 è spirato e i miei vestiti e le mie borse urlano “onoranze funebri”, non voglio portare sfortuna a nessuno di loro e soprattutto non voglio che ci pensino ancora. Chissà quante volte hanno fantasticato sulla loro di morte e, invece, oggi è toccato a 326, domani si vedrà. Scendo giù a bere un caffè, e meno male che ho sempre dietro qualcosa da leggere.
Dopo quasi due ore, torna la figlia con un altro completo, scende con me in mortuaria, mi si avvicina e mi lascia anche un paio di occhiali da mettergli nel taschino della giacca, quello alto ad altezza cuore. Indugia nella stanza, io apro le borse e metto il camice, i guanti, controllo il cartellino alzando solo un angolino del lenzuolo, le chiedo se vuole restare: “In che senso?”
“Se vuole può restare mentre lavoro, pensa che possa esserle di conforto vestirlo? Magari può mettergli la cravatta o i calzini.”
“Non lo so, non sono pratica di queste cose” ma resta lì con gli occhi fissi sul telo bianco, sotto suo padre freddo e rigido.
“Le lascio qualche minuto, esco un attimo”
“No, la prego, resti”
Restiamo così, lei immobile davanti alla barella metallica, io dietro di lei, le mani intrecciate sul ventre, mi guardo la punta delle scarpe, devo necessariamente svagarmi dal suo dolore, che lavora come una pressa, e penso a un’inquadratura dall’alto di questa stanza, tipo film horror giapponese, se all’improvviso il cadavere si mettesse a sedere rischio seriamente un infarto. Devo smetterla di guardare quella robaccia.
Si volta: “Preferisco uscire”, annuisco e l’accompagno alla porta, giro la chiave e mi assicuro che sia chiusa – questa fissa è, da un lato, l’ideale per lavorare indisturbati e, dall’altro, la cosa peggiore da fare perché se per errore non calcolassi bene la forza da applicare e mi cascasse il morto addosso, resterei schiacciata lì sotto senza alcuna possibilità di chiamare aiuto (senza pensare poi al procedimento penale), il cellulare è nella tasca della giacca, in corridoio. Metto la mascherina, abbasso il telo e valuto: omone corpulento, torno alla porta e rigiro la chiave nell’altro verso, qualcuno prima o poi verrà a cercarmi e non troverà chiuso. Guardo i vestiti, sembrano piccoli, glieli poggio sul davanti per fare una prova e mi accorgo che c’è qualcosa nella tasca della giacca, infilo la mano ed estraggo un piccolo rettangolo di carta: una foto stampata su carta normale, una foto di qualche anno fa, ci sono lui, l’omone, e lei, la figlia. Solo loro due. Il dolore sordo che si portava appresso, figlia unica e mamma non c’è. Solo loro due, quanto odio avere ragione.
Sistemo i vestiti su una sedia, prendo un sacchetto nuovo e lo metto sulla barella vuota accanto ai miei attrezzi, tolgo e piego il lenzuolo, è pulito e dopo andrà rimesso sopra, gli chiudo gli occhi e poi poggio la mano sulla fronte “Ciao Nene” gli dico mentre comincio a lavorare.