Stazione centrale
La tristezza che mi ha preso quel giorno sul treno non la scorderò mai. La tristezza che mi ha preso quel giorno avrebbe voluto affogare l’intero corpo nella formaldeide: lasciandolo intatto, ma privo di vita. Era il vuoto nero di tutte le volte che mi sono negata alla gentilezza. Ad una qualche forma di attenzione.
Ho perso il treno, per la prima volta in vita mia, e tu mi aspettavi in stazione, perché, per la prima volta in vita mia, avevo risposto alla domanda: “a che ora arrivi?”
Chissà poi perché. Chissà cosa è scattato di colpo per cavarmi di bocca l’orario giusto. Forse ero stanca. Forse avevo lavorato tutta notte e non avevo dormito.
E avrei davvero voluto vederti sulla banchina della stazione. E avrei voluto che mi aspettassi.
Ma ho perso il treno, sono salita sul seguente, un’ora dopo, troppo tardi. ‘Perdere il treno’ è un maledetto modo di dire, e non è mai stato così vero, di colpo su quel regionale che accumulava ritardo su ritardo mi è cascata addosso tutta la malinconia delle mie risposte evasive, del mio stare per i cazzi miei, del non voler dare pensieri, non creare problemi, di tenere le persone a una certa distanza. Sei vuoi essere carino, ecco, sta’ su de döss.
- A che ora arrivi?
- Tranquillo che arrivo.
- Si, ma se sapessi l’orario…
- Boh vedo, poi ti dico.
Bugiarda, mai dato un mezzo dettaglio in più.
Evasiva. Sempre. Io arrivo, ma coi miei tempi, non mettiamo pressa. Scendo dal treno e decido se voglio fare colazione o spararmi un bianchino e una sigaretta - da sola, sì, da sola - scendo dal treno e con calma decido se farmi 40 minuti a piedi o se chiamare un taxi. Scelgo io. Non voglio rotture, non voglio sapere che qualcuno mi aspetta, non voglio che mi si venga a prendere in stazione - ho visto decisamente troppi film. Non importa se piove, nevica, se è notte o l’alba, non mi interessa nulla, voglio solo fare da me. Ti raggiungo io.
Ti raggiungo io – dico. E penso che se arrivassi in stazione e mi venisse l’uzzolo di prendere un altro treno sarei capacissima di partire e dare buca. Senza nemmeno accampare scuse: “sono scesa, ho cambiato idea e ho proseguito per Roma”. Che bella cosa le distanze, che mi permettono di dimenarmi nella solitudine e nel contempo avere sempre qualcuno con cui passare la notte, quando la notte non basta più. Quando sono così sola che proprio non mi reggo più nemmeno io, e allora ripiego sul sesso, che è meglio della droga perché è gratis, avviando la conversazione con un elegantissimo ‘Non riuscivo a prendere sonno’.
- Dove andiamo per cena?
- In realtà ho già prenotato.
- …dove?
- Non ti preoccupare, lo sai che mi piace mangiare bene, vedrai che ti piacerà.
Decido io. Sempre. Non chiedo, faccio e metto gli altri davanti al fatto compiuto. Non voglio che mi si offra la cena e non mi piace sentire l’ansia da “dove la porto per cena?” che è la stessa che si palesa nello scegliere un vino dalla lista.
Però quel giorno, quando sono scesa dal treno troppo tardi e tu non eri lì in stazione ad aspettarmi, ho capito che tutta la libertà del mondo non avrebbe mai potuto ripagarmi di quello che mi ero appena persa perdendo quel treno. Perché avrei voluto vedere i tuoi occhi ad aspettarmi e il sorriso schiudersi su quei tuoi canini così bianchi. E poco dopo avrei voluto riconoscerti dall’odore. Invece ho fatto le solite cose, banali, futili, con la libertà piegata in quattro nel taschino della giacca. Insieme al magone e a un vagone di merda che sentivo esser pronto per rovesciarmisi addosso.
Si perde sempre il treno giusto.
È più facile salire sui treni sbagliati, io li ho presi tutti, anche con una certa spavalderia ed un discreto anticipo sull’orario di partenza. Tutti uno dietro l’altro.
I bar delle stazioni sono tutti uguali, gialli, rumorosi, con il lancio dei piattini sul bancone accompagnato dallo sguardo distratto del barista e dall’ostinato masticare della tipa in cassa – sempre con la coda alta. I bar delle stazioni sono un ripiego spazio temporale, ‘cazzo faccio per un’ora?’ e si comincia dal caffè; poi ci si ferma ad osservare. È bellissimo poggiare la schiena al muro e, senza un motivo preciso, guardare gli altri: quello che saluta mamma dal finestrino, quello con le buste di plastica che sbatacchiano sul trolley, la ragazza coi rasta seduta sul borsone lanciato nell’angolo più lercio (ogni stazione che si rispetti ha questa figura mitologica), il vecchio col cappello anche al 15 d’agosto che viene puntualmente sorpassato dal resto dei viaggiatori. C’è quello che corre, quello che deve farsi passare le ore, uno che compra le riviste dal giornalaio, il tabagista nervoso, l’altro che chiede indicazioni urlando. C’è l’economy e la prima classe, c’è quello che “Italo tutta la vita” e quello che non riesce a rinunciare al regionale grezzo con l’odore da pendolarismo violento - tanto che immagini gli sbadigli della mattina, avverti il trascinarsi dei giorni in attesa del venerdì e il ritorno sfatto nelle sere d’inverno.
A me piace stare a guardare; partecipare il giusto, ma mai troppo, metti che poi mi distraggo e finisco col perdermi nella vita. Non si sa mai.
Però ecco ci tengo a specificare che su quella banchina lì io ti avrei voluto trovare.
”Ti avrei voluto trovare” penso sia la trasposizione letterale dell’abbraccio fisico. Il trovarsi in un abbraccio. Una poesia a metà, suicida sul binario 15 della stazione centrale. E le parole ghiacciate in gola ‘vienimi a prendere’, le parole che non si sciolgono perché tanto io negli abbracci non ci so stare; e con questa consapevolezza, con questa manchevolezza alla fine ho chiamato il taxi e no, non ti ho raggiunto.