Storie
Le storie le racconto da sempre, ho passato l’infanzia a inventare rime e favole per mia sorella; poi crescendo ho cominciato a fare racconti brevi per pigliare per il culo mamma. Mamma, quello strano essere metà Erinni e metà Madonna: il furore il suo marchio di fabbrica, poteva distruggere per troppo amore o per troppo odio, non conosceva vie di mezzo, è così che si è imparato a vivere su un’altalena. Mamma mi ha insegnato a temere le donne e a starne alla larga. Papà, invece, mi ha insegnato la solidità. Lui e nonno, forse anche grazie alla proverbiale calma sudamericana, erano come rocce calcaree, si lasciavano plagiare dai venti, dalle tempeste, pur restando fermi; la loro forma si smussava a ogni pioggia e loro si facevano via via più comodi, ma immobili, porti sicuri dove rifugiarsi per un consiglio e una tazza di tè.
All’angolo della via dove stava la casa di nonno, a Santiago de Chile, c’era un’india; così su due piedi avrei detto che discendesse dagli Araucani, mi piaceva il suo profilo deciso con quel naso che pareva tagliato giù con l’accetta e l’espressione arcigna. Stava tutto il giorno all’angolo a lavorare su un telaio pieghevole, più alto di lei, che poi la sera si caricava magicamente in groppa per tornare nella baraccopoli dove viveva.
Ogni giorno con gli stessi vestiti colorati, i capelli neri, lunghi, dritti come spaghetti, le mani veloci e la fronte aggrottata, concentratissima nel tessere a telaio. Io giocavo a palla nella via e la studiavo di nascosto, perché avrei voluto imparare anche io quel mestiere, perché quei movimenti eleganti erano ipnotici e, ai miei occhi, costituivano un’attrazione irresistibile. E perché io pure avevo qualcosa di suo, perché della mia bisnonna poco si sa, ma sicuro era un’india - di quale etnia vai tu a sapere – che ebbe la brillante idea di mettersi con un ingegnere inglese. Uno di passaggio che doveva costruire la ferrovia ai primi del ‘900. Uno che a una certa, morta lei e terminata la ferrovia, aveva deciso di tornare in Gran Bretagna e affidare la figlia nata da quello strano incontro al triste destino degli orfani. Fortuna volle che una famiglia abbiente e numerosa decidesse di adottare mia nonna come se fosse una figlia, permettendole prima di studiare e poi di lavorare come traduttrice. Nonna, gli occhiali poggiati a metà del naso - anche lui importante, ma come se l’accetta si fosse fermata a mezz’aria incerta sul da farsi, come se un artigiano esperto avesse usato su di lei l’accortezza dello scalpello, donne fatte di legno e terra bruciata - la matita tra le dita affusolate a cercare l’errore d’ortografia, a scovare la giusta sfumatura linguistica. Nonna silenziosa e paziente, che leggeva a mio padre di mirabolanti avventure piratesche, che dalla cucina scrutava la strada mentre preparava un panino per il vagabondo o metteva da parte le monete per la marmellata di more.
La stessa marmellata che mangiai io molti anni dopo, quando ormai nonna non c’era già più. Mia zia mi mandava fuori a prenderla, come a suo tempo aveva fatto lei da bimba, le monete tintinnanti nella mano destra, la sinistra libera per accogliere i barattoli. Al cancello del giardino mi aspettava una donna con un carretto pieno di vasetti e il figlio a cavalcioni sopra, entrambi con le mani gonfie e deformi. Più tardi chiesi a papà: mi pareva una cosa brutta da chiedere ad altri, non avrei mai chiesto una cosa così “delicata” a mia zia, men che meno a mia madre, ma sapevo che papà avrebbe avuto il giusto riguardo, per loro e per la mia sfacciata curiosità.
“Perché hanno le mani così?” I ragni – hija mia – i ragni rossi che vivono tra i rovi delle more, sono minuscoli, ma sono velenosi. Conosciamo quella famiglia da tempo ormai, non hanno molto e comprare la loro marmellata è anche un po’ aiutarli. Oltre al fatto che è la miglior marmellata di more in tutta Santiago.
Raccoglievano i frutti, preparavano la marmellata nella baracca e poi facevano il giro dei quartieri a venderla. Una marmellata deliziosa, zuccherata il giusto, con il sapore autentico delle more che abbracciava il pane e burro della colazione. Non ho mai più assaggiato qualcosa che potesse, anche solo, lontanamente avvicinarsi a quella delizia. È un ricordo strettamente legato ai sensi, come quasi tutto quello che ricordo del sud del mondo: il rumore del carretto, il bimbo che tamburella con le dita sui recipienti, i miei passi saltellanti sul vialetto di casa, l’elastico allentato dei codini sbilenchi, il peso dei barattoli portati a braccia e poggiati sul piano della cucina anni ’50, “li ho messi vicino al tostapane”, zia che annuisce e continua a fumare sulla porta della cucina, con le unghie laccate di rosa e i capelli profumati di balsamo. Poi il cucchiaino che si immerge e le more spappolate che scivolano ai lati, il sapore dolce e aspro che si mischia alla sensazione fredda del cucchiaino che cozza sugli incisivi e il succo che sgocciola sul mento.
Troppe storie, vedi? Quando uno racconta dovrebbe imparare a tenere chiuse alcune finestre ed aprirne altre. Però se c’è vento, quel vento freddo e violento che viene dall’Oceano, allora si spalancano tutte le finestre e hanno un bel da fare le donne a correre a chiuderle, con le loro alte grida, hanno un bel da fare a sbarrare gli infissi quando il vento le case se le vuole portare e i fogli scappano per la stanza.
Io quell’india la conoscevo, da sempre forse, eppure, nel contempo mi sentivo così lontana da lei. Capivo lo spagnolo, ma non sapevo parlarlo, ero troppo piccola per discernere le due lingue, io così bianca. Io, che porto i cognomi dei conquistadores e dei colonialisti, cosa avrei potuto dire? Il cognome è una cosa importante, perché racconta da dove arrivi, da dove parti, ecco il mio cognome è dei padri dei padri, tutti giunti in terra straniera senza invito, tutti mischiati alla rinfusa, tutti europei scappati dal vecchio continente a cercar gloria e fortuna nel nuovo. Cosa avrei potuto dire a una delle poche e rarissime indie sopravvissute? Avrei voluto dirle “insegnami”, ma lei proseguiva imperterrita a tessere e quando cantava lo faceva in una lingua sconosciuta, la voce profonda, roca e sporca. Una voce grezza e indelicata, che si riprendeva tutto quello che le spettava senza troppe cerimonie e si faceva sentire, stava lì seduta con la schiena dritta e i capelli neri a rivendicare la sua esistenza, e forse anche un pezzo della sua terra, in mezzo alle villette col giardino, in mezzo alla quiete della media borghesia, a vendere scialli, sciarpe e coperte. E vendeva pure bene.
Una volta cresciuta ho imparato da autodidatta a filare, a tessere, a lavorare a maglia. Mi piace pensare che le storie che incontro e che invento siano un po’ questo: fili intrecciati, matasse da dipanare, la trama delle vite altrui che piombano nell’ordito e danno forma a qualcosa di nuovo, la meraviglia dell’inaspettato. C’è solo da imparare a coglierlo, a mettere ordine e aprire solo qualche finestra, per non fare troppa corrente.
Ho imparato a confezionare coperte, sciarpe e scialli, e anche se porto ancora quei cognomi lì dal peso ingombrante, quando un capello nero mi finisce in mezzo alla trama non me ne cruccio. Quell’ostinato capello nero intrecciato assieme alla lana è l’eredità degli invisibili della storia. E lo lascio lì, dove deve stare.