Strade diverse
Sono sempre stato quello sensibile, introverso, quello che se ne sta in disparte a osservare mentre gli altri agiscono sicuri e confusi. “Parla!”, mi dicevano spesso, come fossi un dispositivo a comando vocale. Se c’è una cosa da non dire a un bambino che non parla, ma anche a un adulto, è proprio quella. Perfetto per i discorsi seri, inadatto agli adii.
Ma non sono qui per parlare di me. O meglio, non solo.
L’unico dei miei vecchi amici di quartiere che ancora vedo con continuità è Emanuele, lo vedo una volta al mese quando mi trovo in Puglia, un paio di volte l’anno negli altri casi. È il mio barbiere. Vado da lui non solo perché è bravo ma sopratutto per parlare di quei giorni nostalgici con uno dei pochi testimoni rimasti. Gli chiedo sempre che fine abbiano fatto gli altri, lui che ci ha avuto a che fare per molto più tempo di me, gli chiedo se anche qualcuno di loro va lì a farsi la barba o almeno a salutare. Mi risponde di sì, ma nella lista c’è sempre un nome in meno.
Roberto era il boss del gruppo, se non siamo mai stati picchiati, nonostante il quartiere nella quale vivevamo, è solo merito suo. Madre casalinga con un passato da pittrice, ipocondriaca e con manie di persecuzione, parlava solo per due motivi: spiegare quanto stesse male, spiegare come solo lei stesse male. Nonostante lo scarno repertorio, riusciva a parlare in continuazione. Il padre ha iniziato a fare l’operaio edile che ancora aveva una folta chioma in testa, da allora non ha mai smesso. Uomo semplice e taciturno, molto paziente e attento alla moglie quanto violento con il figlio: i suoi scatti improvvisi di violenza hanno più volte fatto incontrare la testa di Roberto con muri e pavimenti. Roberto imparò fin da piccolo a gestire tutto da solo, badava alla casa e a sé stesso. Nella sua mente balenava la convinzione che se si era in grado di cucinare una confezione di sofficini senza bruciarli allora non si aveva bisogno né di una madre né di un padre. Iniziò a fumare all’età di otto anni, o meglio a otto anni iniziò a comprare regolarmente pacchetti di sigarette, ma non gliene abbiamo mai vista fumare davvero una. Nonostante non studiasse mai si diceva deciso a voler terminare almeno la scuola dell’obbligo. Non ci riuscì per un pelo, finita la terza media il padre lo costrinse a trovarsi un lavoro; rifiutandosi però di lavorare con lui, trovò occupazione come buttafuori in un nightclub poco fuori città. Venne accoltellato davanti al locale da un uomo venuto a ritirare il pizzo: dicono che il motivo fu il rifiuto, da parte di Roberto, di farlo entrare senza pagare l’ingresso. Faceva freddo, aveva diciassette anni, una giacca in similpelle e un biglietto del bus.
Christian era il classico bambino biondo con occhi azzurri ricco di famiglia. Come se non bastasse era anche intelligente e felice, aveva tutto. Viveva nel nostro stesso quartiere solo perché i genitori avevano una villetta che veniva tramandata da generazioni, insieme al loro lavoro non meglio specificato: ci disse che c’entravano i locali notturni e altre attività, ma non abbiamo mai capito in che modo. Quando uscivamo da scuola andavamo sempre a casa sua, passavamo giornate intere a giocare ai videogiochi, a mangiare merendine di marca e a guardare film vietati ai minori. Fu il primo di noi ad avere una fidanzata, iniziammo a prenderlo in giro, quando in realtà eravamo solo arrabbiati perché non ci faceva più andare a casa sua liberamente come una volta. Questo ci fece allontanare per un po’ e iniziammo a capire che era anche lui a mancarci e non solo le sue merendine alla ciliegia. Quando si lasciò con la fidanzatina ricominciammo a vederci ogni tanto, ci raccontava di come tenersi la mano sia bello e di come baciarsi non faccia schifo come avevamo sempre pensato. Lo ascoltavamo curiosi, meravigliati e anche un po’ impauriti, come quando si ascolta un’edizione speciale del telegiornale arrivata all’improvviso a interrompere un cartone animato. Fu il primo di noi anche ad avere esperienze con la droga. “La droga dei ricchi” la chiamava Roberto. Gli ambienti che aveva iniziato a frequentare durante il liceo erano del tutto diversi dai nostri: erano regni incantati formati da tutti gli eccessi a cui è possibile pensare. Noi che lo conoscevamo bene sapevamo che non erano situazioni adatte a lui, ma riusciva a vivere ogni cosa in un modo così naturale da risultare perfetto e convincente per tutti, sopratutto per se stesso. Ufficialmente morì di overdose, nessuno però ne è mai stato convinto. La notizia tuttavia ebbe vita così breve e se ne parlò così poco da esser presto dimenticata. Cosa strana per una cittadina di provincia come la nostra.
Marco era di origini marocchine. Venne adottato da una simpatica coppia che non poteva avere figli. I genitori gestivano una piccola libreria, l’unica della città. Ogni giorno veniva a scuola con un libro diverso e lo leggeva di nascosto durante le lezioni o in pausa pranzo, era il bersaglio perfetto per i bulli. Ogni giorno quel libro diverso gli veniva strappato e fatto mangiare, ma lui ogni volta ritornava con un altro libro e cercava di leggerne il più possibile prima di vederselo prendere dal solito gruppetto. Ogni tanto provava a leggere a casa, cercava di restare sveglio tutta la notte per portare a termine almeno una storia, ma i genitori non volevano. «Se leggi troppo diventi come noi» dicevano, «più leggi e meno amici ti fai, gli unici libri che devi leggere sono quelli per la scuola, gli altri non ti servono… gli amici, quelli sì che ti servono!» Marco non capiva come le due cose potessero essere collegate e allora infilava nello zaino il primo libro che trovava. Centinaia di storie iniziate e tutte finite senza una fine, questo da una parte lo faceva stare male, dall’altra faceva sì che fosse lui stesso a decidere il prosieguo della trama. Non era la stessa cosa, lo sapeva bene, ma non era poi così male. Fu grazie a Roberto che entrò nel nostro gruppo e che riuscì a finire il suo primo libro, lo difese durante il solito pestaggio salvando sia lui che la storia. Il libro era “Il Piccolo Principe”, ci disse che non era un granché ma che era felicissimo di essere finalmente arrivato a un’ultima pagina. Ha gestito per un po’ la libreria dei suoi per pagarsi l’università, ma i clienti diminuivano a vista d’occhio giorno dopo giorno. Né io né Emanuele sappiamo che fine abbia fatto, ma so che ha iniziato e finito migliaia di libri e che ha sempre avuto tanti amici.
Lucia era l’unica ragazza con la quale abbiamo avuto a che fare per quasi tutta l’infanzia, non la vedevamo neanche come una ragazza, era semplicemente una di noi. Era sempre la più sorridente del gruppo, ci abbracciava quando eravamo tristi e quando eravamo felici, ci ascoltava e ci consigliava, è sempre stata più grande di noi nonostante avesse un anno in meno. Senza la sua positività probabilmente molte cose sarebbero andate molto peggio. Non abbiamo mai saputo molto di lei, non si confidava o raccontava mai, siamo andati solo una volta a casa sua un giorno che non stava bene, fu lei ad aprirci alla porta e lì scoprimmo che era la più grande di tre sorelle e che oltre a far da sorella, faceva anche da madre. La madre era caduta in una pesante depressione dopo il parto della terza figlia e da allora si era presa lei carico di tutto. Il padre lavorava tutto il giorno come agente immobiliare, «questa è la volta buona» diceva sempre, ma non lo era mai. Si è tolto la vita lanciandosi dal sesto piano mentre il resto della famiglia dormiva. Se ne sono dette tante sulla motivazione del gesto, ma nessuno potrà mai capire davvero una scelta del genere. Una cosa è certa: nessuno se lo aspettava. Ma quando mai ce lo si aspetta? Lucia ci disse che, malgrado tutto, il padre non si era mai fatto vedere in lacrime o giù di morale. Neanche lei poteva farlo. Questa fu l’unica confidenza che ci fece. Abbiamo capito dopo che quell’esserci sempre per tutti era il suo modo per salvare sé stessa da una voragine senza confini. Ora vive a Londra, ha un piccolo appartamento con la sua ragazza e ogni giorno spero che possa ricevere gli abbracci che le servono, come lei faceva per noi.
Le persone si incontrano per una combinazione di spazio e tempo e se una persona la vuoi davvero incontrare provi tu stesso a combinare spazio e tempo. Per far sì che da questo incontro nasca altro ci sono tutta un’altra serie di fattori che non sto qui a dire. In quegli anni ci importava solo del nostro spazio e del nostro tempo, avevamo il nostro gruppo, nel nostro quartiere, nella nostra città, non avevamo bisogno d’altro. O almeno così credevamo, perché come fai a dire di non aver bisogno di qualcosa che ancora non conosci? Lucia conobbe per caso Isabella nel bagno della scuola, per qualche motivo si trovarono subito bene. Iniziarono a darsi appuntamento ogni giorno, sempre lì, e parlavano di tutto, come se si conoscessero da sempre. Era il loro rifugio e volevano restasse solo loro. Ma quel giorno, quando andammo a casa di Lucia, c’era anche Isabella e ce ne innamorammo subito tutti. Christian fu il primo e unico a provarci ma, un po’ sollevati e un po’ sorpresi, la cosa non andò bene per lui. Lucia stava troppo bene per rischiare così tanto ed era ancora troppo piccola per capire davvero il significato di quello stare così bene. Né Marco né io ci provammo mai. Roberto sembrava l’unico disinteressato a Isabella: si misero insieme qualche giorno dopo e insieme ci rimasero fino a quella fredda notte. Nonostante la giovane età, li vedevo come una di quelle coppie adulte che hanno smesso di amarsi da tempo ma restano insieme per paura di restare soli. Roberto beveva e Isabella spesso passava da me. È sempre stata bellissima e la cosa ancora più bella di lei era il suo non rendersene conto.
Emanuele mi ricorda di quando saremmo dovuti andare tutti insieme in Canada. Perché proprio in Canada non si è mai capito. Parla in modo distaccato restando sempre sul generico, come a voler evitare di incappare in ricordi scomodi che non sappiamo di aver dimenticato. Mi dà un ultima spuntata alla barba e mi passa lo specchio. Dietro di me vedo una foto che non avevo mai notato, siamo noi sette. Le foto sono sempre la prima cosa che si decide di guardare, un’ultima volta, per poi strappare in più pezzi di quanti ne basterebbero per renderle irrecuperabili. Ma certi ricordi non si possono ridurre in pezzi, per quanto lo si voglia. Allora tanto vale metterci una cornice intorno.
Penso a come sarebbe stato bello finire così, iniziandoci ogni giorno per la prima volta e mi chiedo come mai non abbiamo meritato una fine degna di ciò che abbiamo vissuto. È incredibile come basti un incontro a cambiare tutto, come il decidere se fare o non fare una piccola cosa possa condizionare le vite di chissà quante altre persone. Ma non diamo la colpa alle farfalle, né a quelle che scatenano uragani né a quelle che volano negli stomaci. Non diamo la colpa al posto giusto nel momento sbagliato o al momento giusto nel posto sbagliato.
Siamo ancora tutti lì, non ci sono strade da prendere, ridiamo e basta, per sempre, insieme.