Sul finire del fiore matura il frutto
Quando mi chiedono che lavoro faccio ho sempre un momento di tentennamento. E in quell’istante cerco di capire se l’interlocutore voglia, e possa, sapere la verità o se forse non preferisca di gran lunga sentire una menzogna carina e, soprattutto, leggera.
Una sera d’estate, in pizzeria con un gruppo eterogeneo, sembra quasi una barzelletta: c’è un cubano che gira il mondo da 30 anni per evitare la leva obbligatoria in patria, un ragazzo nato in Turchia ma con solo la nazionalità italiana – quella turca no, perché c’è anche lì la leva obbligatoria - ci sono io che galleggio nel Pacifico, a metà tra il vecchio continente e la fine del mondo, c’è un cinese, un senegalese e due italiani. Due italiani veri, scherziamo “che direbbe Salvini di questa tavolata?”. Mi viene da dire che, al di là di quello che possa pensare un fascista, siamo belli, perché lo siamo veramente, così mischiati, mentre parliamo di cucina e mi faccio spiegare le ricette, le cerco online e prendo appunti sul cellulare. Che siamo belli in una pizzeria qualunque a parlare in italiano e a sognare piatti stranieri. Che siamo anche veri, siamo la realtà. E che nessuno degli uomini presenti vuole fare la leva obbligatoria. Per evitarla viaggiano, scappano, rinunciano ad una cittadinanza che gli spetterebbe di diritto. Nessuno di loro vuole imparare a fare la guerra. Lo capisco al volo io, che sto ordinando una pizza con salame piccante. Perché gli esseri umani sono, alla fin fine, molto semplici.
Quando mi chiedono che mestiere faccio vorrei poter dire sempre la verità perché ne vado orgogliosa. E insomma l’altra sera a cena, un gruppo composito, molto colorato: che lavoro fai?
E glielo dico, così sinceramente.
- Ah quindi lavori nell’amministrazione?
- No, no, preparo le salme.
Il silenzio.
Poi partono le domande, non entro nei dettagli, perché siamo a cena, ho una deontologia professionale e perché non tutti apprezzano, lo so. Infatti, poco dopo, terminata la pizza, alcuni si dileguano in fretta, quelli che restano sono i curiosi, quelli che vogliono sapere, quelli che non “l’avrei mai detto”. Io spero solo di non aver turbato gli altri.
Ho sempre vissuto il pensiero e il mio corpo come scissi. Il pensiero, che non si ferma mai, mi ha praticamente sempre fatto sentire chiusa dentro a qualcosa, chiusa nella mia testa, ricordandomi in ogni momento la distanza delle idee, dei sentimenti, non mi ha mai fatto dimenticare nemmeno per un istante la diversità e la solitudine. Una prigione immensa, sconfinata quanto il deserto, una prigione, ma non dorata.
Il corpo tutto, invece, è il trait d’union tra il soggetto e gli altri. È quello che mi permette di fare le cose, di spostarmi, di stare in mezzo ai miei simili. E nel contempo, il corpo può costituire il limite più insormontabile. Io sul mio corpo ho sperimentato. Il mio corpo è nato privo di contatto. Il mio corpo l’ho attivato nel tempo con pazienza: col dolore fisico ho scoperto di averne uno, ho scoperto che la sofferenza psichica poteva avere una risposta fisica che mi regalava adrenalina, una scarica immensa di adrenalina e piacere. Il dolore fisico mi permetteva di esistere in mezzo agli altri. E il punto non era arrivare a vedere il sangue, il punto non era tagliare, non era bruciare, l’obiettivo era sentire. Ricordarmi che avevo un corpo e che quel corpo poteva sentire qualcosa. Il dolore fisico in un modo o nell’altro doveva arrivare, poteva essere il chiudersi le dita nella porta, poteva essere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa che mi ricordasse che ero viva. E i tagli, le bruciature costituivano mille bocche spalancate e urlanti, dicevano tutto quello che non avrei mai potuto razionalmente dire. Le bocche urlanti confessavano i miei limiti e il mio costante desiderio di sorpassarli, di andare oltre. Non mi è mai interessato spiare dal buco della serratura, ma spalancare a calci le porte, tutte. Tutte quelle cose che non si possono dire fare pensare. Tutti quei difetti, quegli orrori ed errori che mi rendono più vicina che mai ai miei simili. Perché i miei simili li ho sempre percepiti come estremamente lontani, se visti col pensiero razionale, o eccessivamente vicini, se vissuti interamente col corpo. Il corpo l’ho coltivato nel tempo con pazienza: col dolore sì, col sesso, col cibo, coi profumi, col chiudere gli occhi e abbandonarsi agli altri.
È difficile spiegare il mio lavoro e l’amore che ci metto. In primis perché lavoro su corpi morti. Perché è un mestiere splatter, perché dove c’è vomito, sangue e merda è difficile vederci qualcosa di poetico; tutt’al più parrà ancor meno degno d’amore.
È difficile perché sono una donna - questo pesa ancora moltissimo, una donna in una casa a lutto è ancora un tabù. Una donna che lavora su corpi nudi e inermi, per giunta.
Ho letto di recente un libro "Reinventare la morte: Introduzione alla tanatologia” di Marina Sozzi (Ed. Laterza) che cita Judith Butler e il saggio intitolato “Violenza, lutto, politica” e ritengo che questo estratto spieghi bene quanto siano fisicamente legati il concetto di lutto, dolore e comprensione dell’altro, abbraccio dell’altro, come estensione di sé:
“Butler si sofferma a descrivere gli esiti dell’imponente lutto collettivo che seguì l’11 settembre. Il dolore, la perdita hanno rivelato agli uomini occidentali una verità che avrebbe potuto restare nell’ombra. Si tratta del fatto che ogni uomo non è originariamente autonomo ma, in quanto corpo, in quanto vita incarnata, è strutturalmente costituito in relazione agli altri, come, d’altra parte, ci insegna anche l’antropologia. I legami, così come il nostro corpo, non sono qualcosa che «abbiamo», ma rappresentano ciò che siamo. Questa dipendenza e relazionalità, però, ci è mostrata soprattutto nel lutto, nel dolore per la perdita:
La perdita e la vulnerabilità sono conseguenze del nostro essere corpi socialmente costruiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio di una violenza che da questa esposizione può derivare.
Il concetto di vulnerabilità è quello intorno al quale si dipana il discorso di Butler. Non si tratta, infatti, solo di ridefinire l’individualità in termini relazionali, ma di affermare che ogni uomo può essere destabilizzato per il fatto di essere legato a tutti gli altri. È evidente quindi la situazione di ciascuno, che si trova a essere esposto alla sofferenza, alla violenza e al lutto.”
In sostanza, io senza te non esisto.
La prigione del raziocinio crolla nell’irrazionale corporeità del lutto, del dolore ed è proprio la perdita, è la fine, a ricordarci quanto siamo umani, a ricordarci quanto siamo connessi (e quanto siamo simili, tornando alla tavolata di uomini in fuga dalla leva obbligatoria, in fuga da chi vuole il loro corpo come arma).
È la fine a permetterci di abbracciare l’altro, di abbandonarci nelle mani di uno sconosciuto. È la fine che attiva il dolore che non si può tenere, che fa saltare i cardini del pensiero, che attiva e percuote tutto il corpo. Il tuo corpo che è poi il mio, ma anche un po’ il suo: corpi connessi e diversi, che fanno una comunità allargata e ricca.
È alla fine che inizia il mio lavoro di amore e cura. Ed è la fine che costituisce da sempre un nuovo inizio, perché sul finire del fiore matura il frutto.
Che lavoro fai?
Collaboro con le onoranze funebri.
Ah in amministrazione quindi?
Sì, esatto, un lavoro un po’ noioso.