Sull'attacco
Sono seduto su uno spicchio d’erba sotto un albero al parco. Quando fa freddo è diverso e c’è più silenzio, allora ci vengo a leggere o a fumarmi un paio di sigarette e penso alle cose. Di tempo ora ne ho tanto e non sempre voglio passarlo in compagnia anche se talvolta, senza alcol, può diventare stressante. Un po’ una rottura di coglioni. In quel caso meglio aspettare sera che la giornata con i suoi patimenti sia finita, senza pensare al dopo che -in tali frangenti- può solo essere il cuscino del proprio letto. Anche perché il giorno seguente ricomincerà molto simile a quello prima.
Si chiama routine, e le routine sono delle pillole molto ordinate e poco complesse. Hanno una conformazione molecolare affascinante, tipo una rete a maglie che forma un cono a spirale, un po’ delle perle di una collana.
La mia ipocondria è un cerchio in testa, un buco nello stomaco che necessita di essere svuotato e riempito a seconda di cosa scaturisca dalla sua attività, fatta di contrazioni e di gonfiore. Nella mia malattia, o ipocondria che dir si voglia, tanto il confine è troppo sottile per farmi capire cosa è vero, a volte c’è dell’acido, a volte il cioccolato non lo mangio perché se ha la crema all’arancia poi mi brucia la gola. Guardo gli altri da dietro uno scatolone forato; porto con me un grande barattolo sottovuoto. Il barattolo però ad un certo punto si è aperto, ed è stato come mangiare i peperoncini all’acciuga sott’olio. Non si può mangiare il barattolo intero da soli tutto in una volta. A volte stare nello scatolone è soffocante, allora esco a prendere un po’ di aria ma poi fa freddo, oppure caldo, oppure ci sono troppe voci e troppi input da tenere a bada. Poi si crea confusione, allora ascolto e assorbo e sto zitto.
La vita si dipana come una lotta e, quando mi trovo a camminare in un luogo dove ho vissuto per lungo tempo, non riesco a digerire. I problemi che ora sembrano stupidaggini e cazzate, quando si è ragazzini, sono invece il centro di un piccolo universo costruito di gioie montate su impalcature che vibrano al vento come coroncine di fiori freschi e delicati. Ma il passato è passato: fa male o bene fino a lì, poi si deve andare avanti.
Si va avanti un passo alla volta, magari anche tre e poi ci si ferma eh, ma la pazienza necessaria a farne uno solo a volte è tanta. Ogni giorno, ogni attimo del presente richiede pazienza, perché il tempo è un concetto che ci siamo costruiti noi senza pensare che può essere diverso per tutti quanti. A volte ci sorprende se il nostro corpo segue il ritmo delle stagioni, cambia. La pelle di un uomo alla fine è come quella del serpente: fa la muta, ma con un tempo decisamente diverso.
Anche il futuro è pericoloso. Mai pensare al futuro, il futuro fa male. Se lo pensi al presente allora ok, non c’è nessun problema, ma se mi metto a fare piani ipotetici e grandi costruzioni poi finisce che non è mai come ci si aspetta. La vita è un po’ cosi, la prendo come va, come viene, ma guarda che combinazione, viene sempre una chiavica. Ecco, è questo che ti porta a dire il pensiero del futuro: è bello sognare, è bello volare sopra la vita, ma è con il presente che si deve fare i conti. Pensare al futuro, che è una cosa che non esiste, fa venire l’ansia, le bolle e le dermatiti. Oppure bevo tante birrette pensando che i Sali minerali e le maltodestrine siano utili per restare in piedi, anche se dopo due litri barcolli un attimo. Una birra è un pasto completo e allora buonanotte Roma. Poi è risaputo che in determinati periodi dell’anno si beve di più. In inverno mi ubriaco di meno se sto fuori tremo, allora le calorie che consumo sono di più e arrivo a casa alla fine che sono sempre sobrio. L’ansia rende snelli, poi magari se fai un po’ di quei muscoli fibrosi si vedono pure quelle vene che emergono sulle braccia che le ragazze trovano un sacco sexy.
Se parlo troppo mi sento sempre esposto a critiche e giudizi e allora divento debole, la mia testa si riempie di ossessioni e fatico a credere che una persona possa conoscermi se poi non cerco conferme. Se parlo di una cosa che mi fa venire l’ansia il cuore accelera il battito, le mani sudano e vedo occhi spaesati che mi dicono che è tutto normale, perché la pelle mica è la loro, è la mia. Passo tempo ad ascoltare e capire queste persone, queste creature cosi belle e affascinanti che mi fanno sentire un verme perché mi raccontano le loro vite e sono sempre più interessanti della mia. Mi sento vuoto, provano emozioni e io le mie le nascondo quasi sempre. Non mi va tanto di parlare dei miei problemi con gli amici perché poi mi sale un senso di nausea, odio le piaghe, mi danno fastidio le lagne. Allora sto zitto. Sto zitto e ascolto. Io voglio che le mie emozioni escano cosi come sono: rozze, grezze, che eruttino come un vulcano. Poi un salto, un abbraccio una canzone possono cambiare tutto. Ma la tensione no, io non la reggo. Cristo, però fa dimagrire. La tengo distante e penso a quello che mi fa stare bene. Sono i personaggi e le storie che mi hanno accompagnato per tutta la vita e ancora lo fanno che mi insegnano tante cose. Ma a volte mi sento in colpa perché spesso non li ho ascoltati. Non ho mai preso un treno a mezzanotte per combattere con i tedeschi in mezzo a una bufera di neve, non ho mai cantato e ballato per sopperire alle sofferenze della mia donna. Il sesso è funzionale al piacere, ma poi che piacere è? Camilla ha i capelli che sanno di miele e di fico, amo toccarli accarezzarli, vedere la forma che prendono quando si appoggiano lievi lievi sui suoi seni nudi quando è distesa supina con gli occhi chiusi e il calorifero emana un tepore sonnolento. Lì mi stendo anche io e le tengo la mano e penso che vorrei stare cosi per sempre. Poi però tutto finisce e la fatica ricomincia sempre, i giorni passano, il tempo viene dato e poi tolto. Ogni istante che passa deve avere un certo perché. Odio perdere tempo, odio chi mi insulta se cerco di dare una mano. I depressi sono così, ti succhiano l’anima fino a che a te non rimane più niente e vuoi mandarli a fanculo. Io lo so bene, sono stato depresso anche io, tante persone sono scappate, tanti vaffanculo e non ti sopporto mai detti. Si vedeva solo dagli occhi. Ma io ero furbo quindi mi sono nascosto prima che qualcuno potesse farmelo notare. Avrei voluto che fossero state le persone ad urlarmi in faccia la mia cecità e non io ad urlarla dentro di me, dentro l’involucro del mio corpo smunto dai farmaci e dagli ansiolitici, dalla puzza di pronto soccorso e dalle ore passate a prendere En sotto bocca da una siringa.
Se ci penso mi innervosisco, ho lasciato che succedesse, è colpa mia è colpa degli esperti del settore cervello, è colpa della nonna, della zia della madre e del padre. Poi di nuovo non esistono colpe ma si trasformano decisioni con il non davanti. Non mi alzo, non parlo, non sorrido, non ringrazio.
E bravo egoista. E bravo tu che non mi capisci. Ma lo senti questo male? Tu sai piccolo smorfioso che di notte dormi quanto il mio stomaco brucia?
Ero magro, non mangiavo, vivevo della mia ansia, dieta a basso contenuto di estrogeni. Pensavo a quella ragazza dai capelli scuri che suonava la chitarra nel condominio vicino, in quella città dove vivevo anni fa. I baci sotto il portone, quando aprivamo il divano letto in salotto e guardavamo le foto dei suoi viaggi o i suoi disegni e io le insegnavo il linguaggio delle storie, quello dell’astrazione. Mi ricordo un viaggio, il lago di Garda dopo Bologna, una casa, la sua, con una bella piscina azzurra. La abbracciavo, tenera nell’acqua, dormivamo sotto le alte palme del giardino. Poi però le arrivava un messaggio, i suoi occhi si scurivano, diventavano ancora più profondi e si girava dall’altra parte. Io andavo in cortocircuito, non mi avrebbe voluto più, lo sapevo, c’era qualcun altro, lo sapevo che non sarei valso abbastanza la pena. Ingoiavo quaranta gocce e mi buttavo nel grande letto in penombra. La sentivo piangere per me in salotto. Veniva da me, mi abbracciava e piangeva. Dopo un po’ mi ha abbandonato e io ho continuato ad amarla in silenzio per anni. Mentre il mio corpo cambiava conservavo intatto il suo ricordo. Mentre attraversavo altre strade e città, nei momenti più inaspettati mi sembrava di sentire il suo profumo. O lo sentivo veramente. Allora mormoravo Giulia a voce bassa e sorridevo, davanti al banco dei freschi per esempio, o in una strada del centro, o in una libreria. Dopo poco tempo dall’abbandono avevo già finito le lacrime, ed era iniziato il periodo dell’elaborazione del lutto. Ho seppellito Giulia in un angolo verde, remoto e silenzioso dentro di me, come un terrario. Un angolo con attorno le candele, i fiori di gelso, l’incenso aromatico a contornare il suo sorriso; dolce e spietato. Egoista e narcisista. IO IO IO.
L’angolo è sempre in ordine e pulito. Qualsiasi cosa accada io ti sarò sempre devoto. Io ti proteggerò, tu vivi ed esisti. Da un'altra parte. Ma dalla mia parte e per me sei morta quando mi hai detto che non mi avevi mai amato, quando la mia malattia ti ha spaventato. Sì, perché spaventava anche me e siccome avevo paura io, mettevo paura a tutti. Le persone tremano se il mio corpo trema, le persone piangono se i miei occhi piangono, le persone si esasperano se io sono esasperato. E viceversa anche. Ma finché non capita a chi è fuori, difficile capire il viceversa. Allora pazienza, mettete i muri e chiudete le porte blindate. A me non frega niente.
La mia cassa toracica è come una cassa di risonanza, amplifica, risalta, vibra. E io vibro, amplifico e risalto. Non c’è pace se lasci che tutte le emozioni ti travolgano e riverberano come un coro di echi che riproducono migliaia di parole diverse.
Cazzo, mi si è informicolato un piede. Penso di essere qui fermo ormai da un po’. Il libro è lì per terra col segno ed ho già fumato cinque sigarette. Tutte le volte mi riprometto di smettere, o per lo meno di ridurre. Ma non funziona mai. Camilla ora lavora, poi la passerò a prendere e la porterò a bere un buon vino. Magari ci andiamo a fumare una canna in collina stringendoci forte per il freddo. È così delicata, ma così inarrestabile. Riesce a frenare le emozioni e farle sue. Mi indica i palazzi e mi racconta le storie di architetti senza nome e di pittori virtuosi. Giulia sei morta. Quanto mi dispiace e quanto sarebbe diversa la mia vita ora. Sono paralizzato, devo fare mille cose e faccende e sto qui sotto uno stupido albero in silenzio. Sono paralizzato non muovo un muscolo. Il sole sta scendendo rapido e io ho freddo. Non riesco ad infilarmi il berretto non riesco ad alzarmi. Guardo un punto dello spazio da circa non so quanti minuti. Non è facile trovare lavoro io non ne voglio uno. Io non so cosa voglio. Non voglio crescere, voglio tornare da mamma e papà quando i problemi non esistevano e il massimo che facevo era mettere il dentifricio in testa a mia sorella o piangere perché avevo rotto il vaso di mamma con una palla in salotto. Voglio di nuovo correre nei campi e tornare a quando l’unico dovere da assolvere era compiacere mio padre con la mia bravura o presunta tale. Cazzo se mi vendevo bene. Ansimo. Mi concentro sul respiro. Uno, due tre… mille. Passo attraverso tutto il dolore, il petto grida forte ma le mie corde vocali non vibrano e non emettono suono. Le persone passano e passeggiano ma non me ne frega niente, io sono invisibile. Mi appoggio a fatica contro la corteccia dell’albero e mi concentro sul respiro e sul dolore. Lo prendo tutto e tutto passa davanti veloce come una freccia. Devo prenderlo tutto sennò il trucco non funziona. Serro gli occhi, stendo le gambe e alzo la testa. Uno, due, tre, mille… attraverso gli anni. Tutti i secondi delle ultime ore, analizzo conto, metto in ordine. Filtro tutto col colino, limo e ritaglio. Conto tutto, mi vergogno mi incazzo, mi sento in colpa, mi sento di avere ragione. Poi di avere torto poi di nuovo ragione. Uno, due, tre, mille… il dolore passa e mi sale l’abbiocco simile a quello post pranzo. E anche questa volta ci sono riuscito, in sempre meno tempo. Tutta una questione di allenamento eh. Mi alzo lentamente, metto le mie cose nello zaino e mi accendo una sigaretta. Obiettivo: fare tutto il percorso anellare del parco. Se non lo faccio, perdo. Nei prossimi minuti quello sarà l’unico mio obiettivo e l’unica azione per cui vale la pena avere una vita in corpo. Concentrazione. Guardo l’orologio: parto e cammino. Mi perdo tra la boscaglia, i conigli e le tartarughe del lago. Continuo ad avanzare e sono a metà dell’anello, nella parte dove ci sono le oche. Odio le oche, che animali presuntuosi. Ma per rispetto non mangio il fois gras perché, boh le oche sono da rispettare, altrimenti ti cavano gli occhi. Continuo il percorso e finisco l’anello. Mi guardo indietro. Il sole sta calando ormai.
Armi e bagagli. Si va a prendere Camilla, si va a recuperare un pezzo di casa e si va a sentire un po’ di calore dentro il quale non mi devo sentire male se non riempio i silenzi. Voglio vedere i suoi occhi azzurri e stanchi che mi sorridono, voglio raccontarle delle storie anche io. Le ho preso un altro libro. Adora che le prenda i libri, le luccicano gli occhi sempre e poi mi abbraccia quasi come se volesse mangiarmi. Anche io me la mangerei tutta, si fa per dire ovvio.
Che bello quando il tempo va avanti e le cose cambiano, e il mondo ha tanti colori che non sono solo il bianco e il nero. Che spettacolo urlare io sto bene anche se a volte non so come stare. Mi guardo le mani e dico che sono onesto. Non sono più il prima ma sono l’adesso. Il passato ingoia se glielo lasci fare, il futuro ti fotte.