There's a light that never goes out
Stanotte ho fatto un sogno, il che è molto strano per me.
Giocavamo tutti annodati intorno a un palazzo altissimo in quel quartiere di Roma che il martedì mattina assomiglia alla Rambla di Barcellona e il sabato sera a una città molto illuminata del nord America. Ci siamo arrivati scavando un tunnel profondissimo e nello zaino solo lo stretto necessario: la matita rossa e blu che solitamente uso per correggere gli errori ortografici, l’analogica per rendere eterne le cose e il telo azzurro ancora intriso di tutta la birra e il tabacco che ci sono caduti sopra negli anni.
Al nostro arrivo c’era già un gran casino e molti visi familiari che non vedevo da un po’.
Ci siamo stretti - senza distinzioni o preferenze - in un girotondo pieno di denti scoperti, mani sudate e guance rosse. Ci siamo avvinghiati, baciati il naso, gli occhi, gli zigomi, come in quel film francese che da ragazzina guardavo sempre per immaginare un po’ più forte e ad un certo punto, proprio mentre sognavo di tornare a muovere i piedi velocissimi, ho sentito la stessa solennità di quando nonna mi dava qualcosa da custodire e diceva: “tienila da conto”, lasciando nella voce una promessa, un piccolo mistero tutto nostro.
Lo terrò da conto, promesso.
Poi mi sveglio di soprassalto con la voce della mia relatrice che squilla imperante dall’altra parte della cornetta. Dopo avermi ripetutamente sgridata e incitata, conclude con tono sommesso e materno: «Signorina, mi fido delle sue mani.»
Dovrei imparare anch’io a fidarmi di più di me stessa.
Luca dice che dovrei usare questi giorni per ascoltarmi, per prestare maggiore attenzione al mio corpo, alla mia mente, meditando e non ascoltando parole che non siano d’amore.
Sicuramente dovrei andare meno di fretta, imparare dalla lentezza delle ore, dalla luce che cerca di farsi spazio tra le fessure delle persiane, dalla voce che è capace di tirare fuori solo la mattina presto o la sera tardi, quella intima e profonda che viene concessa a pochi; quella che avevo dimenticato dentro qualche tenebra adolescenziale, quando mi addormentavo alle quattro del mattino con su un disco dei Diaframma mentre il telefono sul cuscino parlava con la voce di qualcuno.
La verità è che ho paura, e glielo dico proprio con quella stessa voce lì, ubriaca, lontana, recondita, segreta. Mi fa paura persino lui con quella sua naturale capacità di farmi calmare con una metaforica e digitale carezza sulla schiena, come fossi tornata una liceale con poca voglia e molte incertezze. Mi fa paura quando ascoltiamo la stessa musica a chilometri di distanza, quando canticchiamo tre canzoni filate di Lucio Dalla ognuno nella sua camera, con la luce del display dietro le palpebre arrese, come fosse il raggio di quella luna che da qui dentro non riesco più a vedere.
Luca, qualora tu mi stessi leggendo: non smettere mai. Non appena mi sarà di nuovo possibile correrò a Bologna; magari ci passeggeremo a fianco in una giornata di non primavera come questa, ci parleremo e guarderemo di sottecchi, prima guarderà uno e l’altro no, poi ci scambieremo i ruoli. Magari, senza dirci niente, stavolta ci incontreremo sotto lo stesso palco a cantare tutte quelle parole che ci piacciono e ci assomigliano. Tienilo da conto.
A noi malinconici iniziano a mancare nuovi ricordi e me l’aspettavo questa tragica, drammatica fine. Forse, in un certo senso, l’ho sempre cercata.
Un’infinita, estenuante opera di razionalizzazione. Una sensazione di deriva capace di impregnare anche l’aria intorno.
Quello che mi preoccupa di più però, sono tutte le occasioni che ho perso. Avremmo potuto sederci, quella volta, lungo quel muro di sassi e uva fragola, in quell’aria torbida di soffioni e calda estate. Avrei potuto passeggiare più lentamente sotto il portico dei Servi, godermi beatamente la noia che ci ha colpite in quella stazione ferroviaria desolata della Calabria quando hanno cancellato il treno per il mare; avremmo potuto amarci disperatamente almeno cinque minuti al giorno, magari baciarci di più, senza correre inutilmente dietro al tempo e alla pudicizia.
Ecco, quello che mi angustia maggiormente risiede proprio nel tempo sprecato, in quello che non torna, in quello ormai perduto proustinianamente.
Adesso vorrei solamente scappare, vivere sopra un albero e ascoltare le streghe bisbigliare di notte e parlare solo con fate e mangiatori di fuoco; avere tre anni e disegnare con i pastelli a cera le mie vie di fuga. Vorrei che ci fosse un posto sicuro dove poter lasciare quello che penso, far finire questo dolore che provo proprio lì dove prima c’era tutto il meglio di me.
Ho acceso la sigaretta ma non ho voglia di fumarla, tengo il braccio teso e lontano. Faccio salire in alto tante meduse di fumo che fluttuano via nell’aria. È una primavera nata e morta triste per tutti questi pensieri negativi che mi assalgono e mi violentano. Qualche uccello si muove tra i rami, c’è odore di tabacco bruciato e ciliegi in fiore.
Mentre penso a quanto sarebbe bello tornare a rincorrere i petali di glicine trasportati dal Grecale lungo tutta la Chianalea, mi arriva un messaggio da nord-ovest, dove solitamente vive Alice d’inverno: «Non hai idea di quanto mi manchi. Quando sarà possibile rivederci vieni a casa mia con tutte le tue cose, le tue pentole, le tue posate…» (sono allergica al nichel) «e cuciniamo, mangiamo e fumiamo mille sigarette».
Ho alzato la testa e sorriso alla mia noia, alla mia paura, a tutte quelle sensazioni nemiche che da giorni mi porto appresso come un sacchetto di pietre.
Tutto sembra risolversi con un solo, semplice, piccolo pensiero: quando uscirò di casa, non farò nulla di avventuroso o spericolato ma tornerò naturalmente a fare quello che facevo anche prima. Oltre gli scazzi, le strade tortuose percorse assieme, le vite che cambiano e si allontanano pericolosamente; nonostante i caratteri di merda, le personalità esplosive e le canzoni brutte, prima di tutto tornerò ad amare chi mi ama dal giorno zero, da chi amo io senza freni e riserve. Mi piacerà pure portare con me le solite cicatrici ma anche quelle nuove, seppur metaforiche, e insieme contarle sulla spiaggia, riempendoci di granelli fastidiosi. Guiderò un bagaglio ancora più pesante ma che importa, se avrò senza posa chi mi aiuterà a trascinarlo per tutte le salite, le scale e le stazioni del mondo.
Quando uscirò di casa sarò sempre la stessa: una disordinata precisa, un mandala che costruisci per poi distruggere, il foglio scarabocchiato mentre si pensa ad altro, la bocca asciutta, la fotografia che non sei pronto a rivedere.
Ma con un sacco di voglia in più di ballare.