Ti stai annoiando, Alberto?
Apro la porta, esco, vado via. Ciao.
Dove vado, dove vuoi che vado, gente come me dove vuoi che vada. Così sto un po’ fuori a far niente, a vedere quelli che lavorano nel lavasecco o nel bar, che li saluto da fuori perché non ho motivo di entrarci. Sto lì, mi passo un po’ di tempo e non ci penso. Il fioraio egiziano ha una composizione che sembra una savana. Allora cerco sul telefono se in Egitto c’è la savana. C’era un sacco di tempo fa, adesso c’è il deserto bianco. Penso che bello, voglio andarci.
Dove vado, dove vuoi che vado, gente come me dove vuoi che vada. Ho una preoccupazione così alta su tutto che non vado da nessuna parte. Sto qui, guardo quelli del negozio di ricambi lavorare, ma mica ci entro, perché non ne ho bisogno. Sto a posto così. Sto a posto così con le mie preoccupazioni teoricamente infinite.
Pochi giorni fa ero in provincia di Cuneo con la banda a parlare ad un festival di televisione e nuovi media. Che poi la televisione a momenti ha cent’anni, sarà un nuovo media se ti sei distratto parecchio. E lì, davanti a qualche centinaio di persone, ho detto che io sono sempre molto preoccupato. Non ho l’ansia, l’ansia è una cosa che non capisco e tutta la tiritera sul “c’ho l’ansia” mi ha stancato, proprio perché io l’ansia non ce l’ho. Vivo preoccupato sperando di fare la cosa giusta nella migliore delle ipotesi, vivo preoccupato di non fare cazzate nella media delle ipotesi, vivo preoccupato assieme alla preoccupazione che siede da sola al centro del mio cuore: farcela a farcela.
Ti stai annoiando, Alberto? Per niente, rispondo, sono qui impegnato a non affogare nelle infinite valutazioni di ogni singolo dettaglio della mia vita sperando non si riveli poi un naufragio completo. Come son tranquillo io, mentre attraverso il bosco.
Tutte le volte che vado in giro a parlare di scrittura, ma capita anche quando non ne parlo, arriva la domanda sulla questione autobiografica di quello che si scrive. Io dico sempre una cosa di sconcertante banalità, ma mica perché sono banale, ho un ego così, figurati. Dico sempre che persino Salgari, che nel Mar dei Sargassi non c’era mai stato, in quelle avventure comunque ci metteva del suo. Perché la vita l’aveva portato a pensare, a scrivere, a vivere quell’esperienza di viaggio. Dunque l’autobiografia è in qualche modo imprescindibile. Poi ci sono gli autori bravi che ti fanno volare ma stanno da un lato, si tolgono dal cazzo. Quelli moltissimo bravi ma divisivi invece stanno sempre tra i coglioni, lo leggi tra le righe che sono lì appostati dietro un paragrafo, preoccupatissimi di farsi riconoscere e saltare fuori: beh, ti sei accorto o non ti sei accorto che stai leggendo Franzen? Eccome no, mi sto facendo due maroni così.
Io, con l’unica canzone smaccatamente autobiografica che ho scritto, ci ho pagato un sacco di roba per una botta di culo che, nel gergo del mestiere, si chiama marchetta ed è anche il motivo per cui stavamo a Dogliani. Quando l’ho scritta non stavo per niente bene ma la ruota gira e i diti medi al passato volano tanto quanto è comodo questo divano.
Perciò i miei compagni di band non mi hanno risposto a questa mail con dentro una cosa che io ero convinto essere la pietra miliare della mia scrittura. Ci sono rimasto -senza voler esagerare- malissimo. La mia preoccupazione ha raggiunto un vertice così alto che ho guardato gli annunci di lavoro in zona, quei pochi lavori che può fare uno che nella vita ha fatto una band e pubblicato dei libri: il facchino, il magazziniere, il commesso in un negozio di cianfrusaglie con un padrone cinese.
Se mi dicessero: vai a lavorare per i cinesi, ci andrei di corsa. Lasciando ogni velleità artistica da parte e godendo di tredicesima e ferie pagate, o di uno stipendio in nero che comunque va bene di questi tempi.
Sono stato alcuni minuti davvero moltissimo preoccupato, senza sapere come uscirne. Ho cominciato a forzarmi nel divagare. Sono passato dal deserto bianco egiziano ad un approfondimento su 15 mesi parecchio brutti che ha attraversato Facebook. Mi sono sentito meno solo, perché divento stupido quando ci resto sotto alla mia preoccupazione: se Facebook ha passato 15 mesi molto brutti cosa vuoi che siano cinque minuti, Alberto?
Praticamente un’eternità.
Penso spesso a Dio, non in maniera religiosa, forse nemmeno in una maniera cristiana o prossima alla mia educazione cattolica. Ci penso perché mi piacerebbe davvero se esistesse, perché vorrei parlarci, starmene al bar con Dio a fare quattro chiacchiere per un’oretta e chiedergli informazioni su questo mio preoccuparmi di tutto. Voglio dire, l’universo l’avrebbe costruito lui, qualche preoccupazione l’avrà avuta? Come ci ha convissuto?
Nel frattempo ho scoperto che Dio non esiste al 95%, mentre eravamo ospiti ad un convegno di astrofisici. Devo dire che è stata una settimana di giostre e cose strane.
Sono anche stato a cena a casa di Carlo de Benedetti, con una serie di soggetti che non vale la pena inserire in un pezzo di fiction perché un conto è la fiction e un conto è la fantascienza. A me è sembrata una cosa di quelle che poi ti cambiano la vita, che ti porti dentro per un sacco di tempo e ci ripensi, fai delle valutazioni di un certo spessore.
Quando sono tornato a casa l’ho anche detto a mio padre. Mi risponde così:
“Quello di Berlusconi?”
Maccome quello di Berlusconi?