Titire tu patualae
Il mio cuore non è veramente un cuore.
Litighiamo spesso perché non so mai tenere la bocca chiusa e quando mi agito a volte alzo la voce e gli dico: «Hey cuore, sei proprio uno stronzo. Se potessi ti riporterei indietro.»
Il mio cuore non è veramente un cuore, è una luna.
Pieno di macchie, botte e crateri che si vedono anche da un punto lontanissimo del cosmo. Ogni volta che qualcuno passando lo vede, dice: «Povera ragazza, che cuore brutto le è capitato. Chissà come si sentirà dimenticabile.»
Il mio cuore non è veramente un cuore, è un treno.
Corre, corre, e sembra che non debba fermarsi mai. Invece poi, nel bel mezzo della pianura, ecco che frena bruscamente provocando suoni assordanti e odori nauseabondi.
Perché il mio cuore fa quello che si sente, come gli gira, come gli va, e quando qualcuno ci sale sopra puoi chiaramente sentirlo borbottare: «Che strano cuore ha questa ragazza. Non sembra neanche un cuore. Meglio filarsela.». E alla fine nessuno torna più.
(Ho imparato a dire ‘addio’ in sette lingue diverse. Il serbo è ancora la mia preferita).
Il mio cuore sono tutte le strade che ho percorso, i corridoi lunghissimi – anzi, i soffitti dei corridoi lunghissimi – che ho visto con gli occhi sotto anestesia, quei corridoi con le luci artificiali che ti si infilzano sotto le palpebre e che sono portatrici di cattive notizie; e poi i labirinti in cui mi sono persa (molto) e ritrovata (pochissime volte).
Il mio cuore sono le tasche del maglioncino nero di mia nonna, un pozzo profondissimo pieno d’amore, caramelle, fazzolettini e foglie secche.
Mi mancano. Mi manca. Adesso che quelle tasche le indosso io non hanno più significato.
Perdo sempre tutto, non ho la sua stessa grazia, la sua stessa fede in Dio e nel mondo, la sua capacità di raccontare storie né i suoi occhi azzurri.
In generale non saprò mai cosa significa essere nonna. Neppure madre, a dirla tutta.
A volte faccio finta di non saperlo ma questo gioco non funziona più.
La vita mi ha rilegata dentro un solo nome proprio di persona e un solo nome comune: Prof.
Mentre scrivo sento singhiozzare in un punto impreciso della classe, alzo gli occhi dal foglio e c’è Vittoria - una ragazza di quinta - che non riesce a smettere di piangere.
Ancor prima di chiederle cosa le sia successo, mi appunto sul foglio che le lacrime sono indispensabili, servono a fertilizzare l’anima. Qualcuno prima o poi ci crederà.
La guardo mentre scrive a sua volta con la schiena curva, mentre una pioggia nera le cade dai bordi degli occhi, lì dove un giorno tutte le emozioni si trasformeranno in rughe profondissime. «Prof mi promette che queste parole resteranno solo nostre, per sempre?»
Insegnare è anche questo, accogliere e farsi carico, prendersi cura di figli che non sono nostri ma che è come se lo fossero. Mi rasserena pensarlo, mi fa sentire sicuramente più leggera e meno distante dalla vita. «Lo prometto.»
Poco dietro, Sara è immersa nei suoi pensieri e non s’accorge di nulla. Mi guarda e scrolla la testa solo per dissentire riguardo la difficoltà del tema che gli ho somministrato mentre dalle sue cuffie qualcuno rappa parole tristi, d’amore, che poi ritroverò piacevolmente nel suo compito. Intanto Alessandro mi guarda e ride, come sempre. Dice che gli piace scrivere anche se è complicato smascherarsi.
Lo so cocchi miei, scrivere di sé stessi è difficile, però vi assicuro che allarga il respiro.
Le parole rendono forti e belli. Oppure non servono a niente, capita.
Io l’ho scoperto a diciassette anni appena compiuti. Avevo il culo seduto accanto ad un
tavolo ballerino sopra un marciapiede sbilenco al centro di Montmartre, a Parigi; nella mano destra tenevo stretta una penna blu mentre cercavo di ripararmi dall’acqua ghiacciata che scendeva incessante dal cielo bianco sopra di me. Quel giorno lo ricordo nitidamente perché è lì che ho imparato ad accarezzare e ammaestrare il mio passato, a renderlo sicuramente più lieto e meno cattivo. Pregavo affinché la mia mano riuscisse a trasformare la rabbia in uno stato d’animo reale, fisico, corporeo e che magicamente s’innalzasse e iniziasse a volteggiarmi intorno. Ero curiosa di sapere che lineamenti avesse il mio dolore, volevo guardarlo fisso negli occhi e riconoscervi dentro tutti i giorni di pioggia sotto i quali per anni non mi ero potuta bagnare, i giorni di festa in cui non avevo potuto ballare e quelli di sole in cui non ero potuta andare al mare.
Mi sono spostata i capelli dal viso ed è bastato un giro d’inchiostro per far andare via le nuvole.
Vorrei vorrei vorrei, tornare a sentire le cose con il cuore di un’adolescente, tornare a sentirmi di troppo dietro un banco di scuola, pensarmi eterna e invincibile.
Vorrei vorrei vorrei, aver sfruttato meglio tutto il tempo che ho avuto a disposizione.
Poter tornare indietro di qualche passo e magari leggere di più. Ci ho pensato la scorsa notte, quando all’improvviso è crollata la libreria nella mia stanza per il peso che le ho crudelmente caricato sulle spalle. Centinaia di libri mai sfogliati che da molto tempo cercano di dirmi qualcosa, supplicandomi di concedere loro una vita, una possibilità.
Vorrei vorrei vorrei, aver studiato meglio l’Ariosto in quarta liceo. Magari aver imparato a memoria molto tempo prima quella frase che dice “amar senza speme è sogno e ciancia”. Che a ventiquattro anni mi sono sentita vecchia e in ritardo.
Vorrei vorrei vorrei, aver amato molto meno. Poter dormire liberamente quando ne ho voglia senza aver paura di sognare con ordine preciso tutte le persone che sono salite sul mio treno senza prima chiedere permesso, senza obliterare, scrivendo sui sedili con l’inchiostro indelebile e spaccando i finestrini con il martelletto rosso delle emergenze. Vorrei vorrei vorrei, non smettere mai di diventare. Espandermi, aggrapparmi alla bellezza, coltivare la gentilezza e poi ricominciare daccapo.
Vorrei vorrei vorrei, non avere tutta questa voglia e questa fretta di andare via, di trasferirmi altrove per immaginarmi più felice. Mi guardo allo specchio e, pur sperandoci, ogni mattina non vedo mai l’adulta che volevo diventare. Sono goffa, stanca, sola. Mi sveglio, vado a scuola e torno a casa poco prima dell’ora di cena, poi di nuovo libri, manuali, prose, poesie, versi, titiretupatulè, declinazioni e metrica, Ovidio e Virgilio, dizionari, canzoni a basso volume per non disturbare chi non vive di notte, acquerelli, tele, tempere, Lucio Corsi in tutte le stagioni che mi aspetta al di là della paura, le amiche, la birra, le serate, gli hangover da gestire, l’hennè sui capelli, gli amori difficili. Tengo duro, tra 2700 ore è primavera.