Ultramarine
Il tetto grigio di nuvole basse era stato inghiottito dal buio della sera. Nemmeno le luci della città riuscivano a contrastare l’aria pesante e impenetrabile che era scesa tra i palazzi, nelle strade, sulle persone. Il mondo avevo smesso di far rumore. L’insegna era spenta e la serranda abbassata quel tanto che serviva per scoraggiare anche i più determinati. Fuori era un magma sfocato in transito mentre dentro, il rumore sordo della lavastoviglie, riempiva ritmicamente gli spazi.
- Cos’hai fatto in tutti questi anni?
Le dita affusolate segnavano il bordo della tazzina, disegnandone lentamente la circonferenza, come se quel gesto portasse in sé la velocità delle cose. Passò un tempo indicibile.
- Niente di davvero interessante, ripensandoci. Ho fatto molti caffè.
- Spero tu non ne abbia bevuti troppi, lo sai che…
C’era, da qualche parte tra la pancia e la gola, un modo per non sentire la proprie voce come un costante rimprovero?
- Fanno male. Troppi caffè fanno male. Lo so.
Le luci fredde da locale pubblico e le vetrate per qualche secondo vibrano con il passaggio forse di un autobus, forse di un camion, forse del tempo che bruscamente si ferma definitivamente. E con lui la lavastoviglie, le dita sulla tazzina, il complicato meccanismo che governa l’universo.
- Mi dispiace.
- Non fa niente.
- E invece ha fatto, guarda. Guardati.
Non c’erano gesti ad accompagnare le sue parole, ma fu come se tutto il creato si fosse voltato ad osservarlo per disegnarne meglio le occhiaie, la bocca triste, i cattivi pensieri. Si strinse nelle spalle muovendo nervosamente le mani come a preparare un incantesimo per potersi difendere o scomparire, come aveva imparato a fare per tutta la vita.
- Credo sia meglio che tu te ne vada.
La sedia, angolata rispetto al tavolo, era già vuota.
O forse no. O forse no.