Un cappello pieno di ciliegi
Sono cresciuta sul bordo delle ginocchia fragili di mia nonna, con le gambe penzoloni su un fiume limaccioso di ricordi e nenie strazianti.
Quando nel suo paese scoppiò la Seconda guerra mondiale aveva vent’anni e da poco si era innamorata di mio nonno, che però abitava in un borgo a valle, distante da casa sua; assieme a lei ho rivissuto tutto daccapo, mentre la sua voce rotta mi parlava di immagini esasperanti ma di una bellezza disarmante, che non sono mai veramente riuscita a collocare sulla scala delle emozioni.
«Mi ricordo una mattina d’estate, c’era un caldo svenevole che a noi donne ci costringeva dentro vestiti sgualciti e sformati, con la gonna a campana e le bretelle rammendate ormai troppe volte. Era mattina tardi e me ne stavo seduta con le gambe ciondoloni sull’altalena sotto il nostro ciliegio in fiore. Dondolavo, dondolavo, e intanto pensavo a tuo nonno, confinato ai piedi della mia collina; al tempo, in casa non avevamo nulla, tantomeno un telefono per chiamarci e raccontarci cose inutili e senza senso, come spesso accade oggi. Eppure, le nostre sarebbero state parole importanti e preziose, ormai disperse per sempre nella scatola delle cose non dette.
L’amore però spingeva anche allora, lo sentivo battere e pulsare dappertutto, sotto i muscoli e dentro le ossa. Le mie erano fragili anche nel 1940, quando bastava anche solo un pizzico d’innamoramento per lasciarmi invalida. Una sensazione che non posso spiegarti, ma che sono certa un giorno proverai anche tu, magari meno tragicamente.
Mentre dondolavo su quell’altalena arrugginita, quel giorno di giugno, vidi mia sorella Italia correre di fretta verso le mie braccia, lasciando cadere la bicicletta con un’insensibilità che di certo non le apparteneva. Senza parlare, con il fiato corto e il petto che si muoveva irregolarmente su e giù, mi porse una lettera.
Non so se sai cos’è, cocca mia, ma immagina un foglio bianco sterminato che perde il suo candore in favore di cento parole, che non sanno discutere ad alta voce ma che dicono esattamente quello di cui hai bisogno. Io, per lo meno, in quel periodo avevo urgenza di riceverle per non morire, per non arrendermi, per non fermarmi. Questo, spero potrai non capirlo mai.
Mentre a stento leggevo la calligrafia di Bruno, non riuscivo a trattenere i sospiri; se ne scappavano dappertutto e facevano rumore. Italia rideva, seduta davanti a me con le gambe incrociate, gli occhi curiosi e trasparenti degli adolescenti.
Adesso stento a ricordare pure il nome dei miei figli, ma quei lemmi saprei recitarli ancora a memoria dopo sessant’anni. Ricorda bambina, poche parole abiteranno la stanza più profonda della tua anima e quelle erano certamente le mie; da quelle riuscivo persino a vedere il mare.
“C’è la tua luce, c’è la mia. E tutta l’ombra è il nostro campo di gioco.”
Riesci a capire cosa stesse cercando di dirmi? Riesci lontanamente a pensarci? Era un periodo buio e oscuro per tutti; ancora non si sentiva parlare di resistenza e a dirla tutta, non sapevamo neppure cosa fosse. C’erano solo bombe, aerei e povertà, ma bastavano ad occupare tutto lo spazio disponibile, non c’era più luogo neppure per un respiro, per un sogno di troppo. La crudeltà di quel tempo incendiava, per poi – in una maniera che non ho mai compreso – svampare in tenerezza.
I suoi occhi neri d’inchiostro furono certamente la mia.
Mi alzai di colpo dall’asse di legno in bilico tra due corde e nella foga feci rovesciare il cappello pieno di ciliegie che avevo di fianco. Italia gridò con voce acuta, si mise in ginocchio a raccoglierle a una a una, con le mani veloci, soffiandoci sopra per togliergli la terra di dosso, tornando la bambina che da sempre conoscevo e che molto amavo.
Dall’albero sopra di me se n’erano cadute almeno cinque decine di ciliegie mature, proprio dentro il cappello di paglia con il nastrino verde che avevo posato con noncuranza affianco alle mie gambe. Avesse visto quella scena mia madre, mi avrebbe certamente lanciato un rimprovero senza fine: sono sempre stata una ragazza distratta, persa a contare le nuvole e i passi che mi separavano dal cuore che avevo lasciato qualche chilometro più sotto; mentre tutta la famiglia pensava al pane e alla terra, io non facevo che immaginare la mia fuga.
Qualche ora dopo, con il fagotto colmo di vestiti e fotografie, presi la bicicletta di mia sorella senza che lei avesse modo di ribattere. Mi voltai un’ultima volta per stamparle un bacio sul viso e lei - senza muovere un muscolo- mi salutò con poche parole di diamante: «Marianna, non dimenticarti delle ciliegie. Quando ti mancherò, mordine una e sputa il nocciolo più lontano che puoi: lì sarò io.»
Italia, insieme a tutta la sua bellezza, morì il mese successivo. Spesso, per punirmi, mi convinco che se avesse avuto ancora la sua bicicletta, forse sarebbe riuscita a scappare più rapidamente. Ero stata io la sua carnefice, io la sua aguzzina. Non avrei mai potuto perdonarmi un atto così disgraziato. Ad oggi, ancora non l’ho fatto.
Cocca mia, la libertà è il vento leggero che ti accarezza il collo scoperto durante i giorni più caldi e afosi; quella brezza panica che non ti aspetti e che invece arriva, prima o poi, senza permesso. Il vento è capace di grandi cose, è grazie a lui se riusciamo a sentire le campane suonare. Adesso mi dispiaccio per tutte le gonne che ho fatto svolazzare, per i figli, il matrimonio, le estati felici, gli inverni caldi, le vacanze al mare e i paesaggi incredibili che ho visto; per tutte le libertà dentro le quali ho danzato e che mia sorella non ha potuto apprezzare. Mi dispiace che non abbia fatto in tempo a festeggiare la cosa più preziosa che ci sia mai accaduta, in virtù e onore del nome che le era stato cucito addosso.
Amore mio, promettimi qui, su questa sedia a dondolo, dentro questa casa piena di agi, ninnoli e odori, che quando sarai grande e io non ci sarò più, ogni estate morderai una ciliegia e farai una giravolta: dentro il vento che ti sposterà i capelli, saprò dirti che stai andando alla grande».
Stamani, al centro della tavola, mia madre ha lasciato una manciata di ciliegie per colazione. Poco mature, ancora aspre, dentro una ciotola colma d’acqua. Ne ho morsa una ad occhi chiusi e ho fatto una giravolta, attenta a non farmi vedere da nessuno. E per la primissima volta, non ho sentito la sua voce accarezzarmi il viso.
I fantasmi che mi abitano hanno tutti un nome e un buon profumo, ma forse mica lo sanno che mentre loro se ne stanno abbarbicati e arrotolati lungo la mia spina dorsale, lì fuori il mondo è cambiato. In questo maggio, mi tocca amarmi da sola, sperando che funzioni.