Era radice. Una forte radice ricurva, a mo’ di quel noce vetusto sul quale finiva - colpa di Gianni, quel figlio di un cane - il pallone comprato a fatica, coi soldi del nonno. O invece era ramo? Un ramo flessibile e snello, come il lauro che in cambio del fresco offerto d’estate, chiedeva pazienza. Pazienza per l’effluvio che il nonno sdegnava, colpevole di fargli tornare alla mente - irritante sinestesia - i molti mal di pancia patiti in gioventù.
Poteva esser frutto, sperava. Che il frutto è senz’altro gradito alle genti – mal che vada agli uccelli, che beccano a fondo la polpa, a succhiarne la linfa, per spargerne in seguito i semi, fruttuosi anche loro di vita.
Era fiore. Raccolto per dame spregevoli da corteggiatori feriti eppure mai vinti, o fiore che si apre alle api - donatore di nettare - facendosi anch’esso, così, portatore di vita, in un regno e nell’altro, nutrendo animali e spargendo corredo genetico in piante d’identico seme.
In verità, ciascuna alternativa si presentava affascinante. Fiore o radice, frutto o ramoscello che fosse, sentiva di appartenere a qualcosa. Sentiva che il sangue delle sue vene era il sangue del mondo, sentiva prorompere dalle sue tempie lo stesso battito che aveva animato il respiro di Ettore, Dante, di Enea, Salomone, dei Draghi volanti ed anche S. Giorgio, perché no? Ché in fondo era tutto un unico cosmo, Agamennone o Priamo, Enrico IV o Valois, Abele o Caino, eran tutti legati a quell’albero, forti radici, o timidi frutti, fiori aromatici o rami eleganti. Era lì che il disegno tendeva, al suo centro.
Questo pensò nell’istante preciso in cui il colpo partì, perforando la tempia. Raggiunse così con violenza il selciato, cadendo, tonfando, col naso sui ciottoli bruni. Intorno, la strage impietosa era fatta, decine di corpi ammassati.
Sorrise nel farlo, persuaso che fosse il momento di cambiare coltura, che al campo servisse un incendio, ed un lungo - ovattato, silente - maggese.