Una botta in testa
Crescere.
Quando si pensa, o si utilizza questo verbo di solito è sempre in correlazione con soggetti bambini o adolescenti. E quasi sempre è utilizzata con accezione indolore e sfumature di tenerezza, in quieta pietas.
Si pensi alle mamme esasperate dai figli sedicenni che di colpo si ammutoliscono e si rintanano in grandi felpe col cappuccio, oppure alle nonne al paro giochi che osservano i nipoti giocare con l’altalena e correre con altri bambini, litigare, piangere. I bambini riescono ad elaborare le domande più strane e bizzarre le cui risposte si rivelano impossibili o complicate da fornire; magari vedono un insetto blu, un cane senza una gamba, si chiedono perché gli alberi in autunno facciano cadere le foglie, perché i gatti fanno “miao”, come è morto Bob Marley… e via dicendo. Molto divertente, limpido e drasticamente puro; una curiosità che apre gli occhi che fa pensare che il bello esiste, che c’è la necessita di tirare fuori la verità, per una lacrima o un sorriso. O un’altra domanda.
Si arriva poi ad una certa consapevolezza i cui la parola crescere cambia completamente toni. Diventa più solenne e severa, diventa più dolorosa.
Prendiamo per esempio di Laura, che è anche la protagonista di questa storia.
Laura ha 25 anni e si sente sempre dire in continuazione che ha una vita davanti. È stanca, francamente di sentirselo dire, con quel sorriso da beota che le persone gli mettono davanti alla faccia quando pronunciano quelle parole. Stai tranquilla dicono, il mondo è pieno di possibilità; hai fatto tante esperienze, tornare a casa non è un fallimento, prendi il tempo che ti serve però non troppo perché devi fare qualcosa, non puoi rimanere ferma. Ci sono i soldi non ci sono c’è da pensare al tuo futuro, alla tua indipendenza.
Ha finito gli studi nel minor tempo possibile, cerca di guadagnarsi da vivere da sola, agogna l’indipendenza. Un quarto di cento è passato troppo velocemente, talmente tanto che le fa salire il panico fino alla gola. Da qualche tempo è incapace di cucinarsi anche solo una zucchina bollita, manda a fanculo tutto e tutti; allo stesso tempo brama gli abbracci come un febbrile cercatore d’oro nella Sierra Nevada.
Ma che vuol dire indipendenza? Si domanda continuamente. Gli continuano a ripetere che sta crescendo; si continua a ripetere da sola che sta crescendo. Lei che vorrebbe muoversi il più silenziosamente possibile in questo mondo, lei con le sue idee rivoluzionarie che volano in alto libere, che non ha il coraggio di afferrare, poggiare per terra e rendere solide. Si arrabbia perché manca una coscienza collettiva, si arrabbia perché le persone usano il verbo “FARE” a suo parere senza farsi alcuna domanda.
Prendere una strada qualsiasi, rispondere alle domande di qualche recruiter pazientemente per mezz’ora, senza realizzare se sa o non sa quello che sta facendo. Il tempo in cui sarà di nuovo disoccupata andrà tra i suoi campi e la sua terra, ad aiutare il padre che è stufo di starci dietro, di avere due vite.
È difficile e non richiesto portare la memoria di più persone sulle proprie spalle. Ti dicono che la vita tua, è fluida e libera. Sta un po’ dubitando di queste parole ultimamente.
Quante volte le dicono di tirare su la schiena. Quante volte la rabbia prevale per un senso di ignoto che non è affatto razionale e valutabile, misurabile, programmabile.
Essere così giovani e così disillusi, pensa spesso, porta solo alla conclusione che la giovinezza se ne va via molto prima di quello che dovrebbe essere e non c’è modo di tornare indietro a fare le cornicette sui quaderni, a colorare (male) con i pastelli o aspettare il purè alla mensa della scuola. Come il Kinder fetta al latte: ogni volta che lo compra al supermercato sembra sempre più piccolo.
Silenziosamente le è stato dato molto, la sua anima tremolante piange dalla gratitudine. Sa benissimo però che in realtà ora niente è concesso e tutto deve essere guadagnato. L’ultima volta che ha visto sua madre le ha parlato di amore incondizionato; senza condizioni perché altrimenti nessuno si salva dall’entrare nella vita di un altro.
Ogni volta che dà l’ultimo bacio al suo ragazzo, che vive in un’altra provincia, è come se fosse una promessa sussurrata piano di aspettarla, di portare pazienza, che ce la può fare. A fare cosa non lo sa.
Si sforza di pensare che non è una questione di lavoro, che la vita e il lavoro sono due cose diverse: questo la tiene febbrilmente in piedi, la salva da stupidi compromessi.
Il problema che rimane è che non esiste assoluto nelle scelte, non esiste giusto o sbagliato. Esiste “se hai deciso così, secondo me hai fatto bene, fai quello che ti rende felice”.
Si trova spesso a camminare da sola in città diverse, non sapendo più a quale posto appartiene. Cammina. Quasi mai si volta indietro a guardarsi le spalle. A volte ha la testa bassa, a volte chiama amici lontani che non vede da anni per mantenere il cuore al caldo.
Non riesce ad immaginare la sua vita tra qualche anno; c’è un sacco di nebbia. Allora pensa sempre al primo metro, poi finito quello un altro metro e così via.
Mera sopravvivenza.
I libri la tengono viva, il silenzio la rassicura. Ha nostalgia di tante cose: il mare, una corsa tra le colline, una ferrata in montagna, un libro a 1000 metri, un sogno che ha appeso e che non è mai il momento di tirare giù.
Ma vince sempre la carta di filigrana. Sempre. Sempre. E questo la fa incazzare.
Un po’ di là, un po’ di qua: ha imparato a vivere con molto poco. A stare a galla, a dire no con molta più convinzione. Per lei non è una questione di privazione, ma di pura apatia. Posso arrivare fino a qui, non più in là. Per un po’ è meglio lasciare perdere i limiti e i burroni burrascosi delle troppe bevute outdoor, provare a stare senza droghe, forse.
Le servono attimi di raccoglimento, ama sognare mattoni rossi e palme, rannicchiata a piedi nudi in una stanza semibuia. Ama pensare alle persone che hanno dato grandi contributi al mondo, ma anche a quelle che non sono state capite. Vorrebbe darli anche lei, che sogna sempre un mondo migliore, un modo migliore per gestire tutto, un modo migliore per far vibrare le emozioni e le scelte.
Il racconto di Laura può essere un po’ una chiavica. Laura è ferma, non sente di stare crescendo, di nutrire il suo cuore nel modo più appropriato. Laura cammina, sta seduta, esegue atti meccanici per pura sopravvivenza intellettiva. Non sta creando atti straordinari che vorrebbe che gli altri sapessero, quindi questa storia è una storia solo per metà.
Manca poco tempo allo smacco. Da quando è caduta dalle scale di casa ed è finita in pronto soccorso, con tanto di mille esami e test psichiatrici per un trauma cranico, si è detta che sarebbe finita anche la sua vita in quella città, che avrebbe fatto altro, che è stufa della stasi. Vorrebbe alzare le braccia al cielo, fottersene della gente che ha intorno, del mare di turisti, e gridare fortissimo, gridare e piangere in una sorta di modalità poco calcolata di senso di liberazione precario.
Perché così sarà la sua vita: precaria. Troppo emotiva, troppo fragile per reggere molte cose, ha trovato nel raccoglimento della sua solitudine la sua salvezza personale e non empiricamente replicabile. Prima o poi questa emotività va limata da sola, si dice. Ma non trova mai le forze di farlo, o non è mai il momento giusto. Sono ormai sette anni che prende psicofarmaci, che ha le stampelle nel cervello, o così le viene da pensare.
Quelli come lei sono destinati a una infelicità eterna o a una grande realizzazione. Non esistono vie di mezzo.
Ma che vuol dire?
Allora Laura vive, respira, cammina, sogna, mangia (poco), legge (molto), da baci, fa l’amore e per il resto si tappa il naso.
A volte chiude gli occhi.