C'è stato un momento nella mia vita in cui non ho capito più niente; ed era così forte il vento che non sapevo nemmeno se attorno a me c'erano colori oppure solo tantissime sfumature di grigio.
Non credo di aver avuto paura: ho solo pensato, ogni notte per mesi in mezzo ad un mare di lacrime, che forse quello scalino che avevo davanti era davvero troppo alto per me. Sembra una barzelletta, io che arrivo a malapena a centocinquantacinque centimetri, mi dico di non saper superare un ostacolo in altezza, sulla soglia dei 19 anni per la prima volta.
Poi ho deciso di provare ad uscirne nel modo più logico possibile: studiando i miei alogici e illogici comportamenti. Insomma, a guardarmi dentro e a chiedermi come ci ero arrivata lì: come ero arrivata a piangere ogni notte per mesi. La risposta era tanto lampante quanto assurda: la felicità mi aveva portato fin lì. Felicità, sì. Era di quello che si trattava.
Questa non è una storia, o forse si. Non l'ho mai capito. Ad ogni modo se vogliamo identificare dei protagonisti, io sono fra quelli, e le cose vanno più o meno in questo modo. C'è del gran casino, perdo completamente la testa, mi conosco un pochino meglio, piango tanto, ma poi alla fine sono qua che vi scrivo: la vita sistemata un po' come capita, come quando si stendono i panni all'aperto; ma vi dirò felice. E se è una storia, non è ancora finita.
Tempesta.
Vento fulmini lampi.
Io da qualche parte in questo paesaggio.
Ma le storie bisogna raccontarle dall'inizio, scusate.
Gazzelle dice "ma che ne sanno gli altri di quando tornavamo tardi pieni di graffi".
Ed era proprio così.
Si usciva tra amici, poi si restava in due a parlare della vita; di un mondo che non ci piace, di tutti i modi bizzarri e a volte fantasiosi che abbiamo ideato per sistemarlo.
Un secondo dopo improvvisamente: il silenzio. Ne era piena l'aria di quei silenzi, ci dicevamo così tante cose che avevamo bisogno di assimilarle, forse. Gli occhi fissi sul ghiaccio della mia acqua tonica, e tu a fissare la gente nel viale che ti sembrava sempre più a suo agio di te. Non è mai stato un silenzio vuoto, non lo è nemmeno ora. Anzi, mi scalda quasi coccolandomi.
Poi passavano i minuti, la gente degli altri tavoli iniziava a domandarsi se andasse tutto bene.
In realtà no. andava troppo bene.
La metà dei miei pensieri erano rivolti proprio a questo: al come era possibile che tu, ultima apparizione nella mia vita, avessi deciso di prenderla in mano e arricciarla come si arriccia il nastro sui pacchi di Natale. In realtà ciò che non mi spiegavo era il mio rimanere inerte a tutto ciò, avresti potuto "mallearmi" come fossi pongo.
Nelle stanze più nascoste del mio cervello parlavo di quella situazione in terza persona; vedevo la scena quasi fossi una passante. Non perché non fossi d'accordo, semplicemente era la prima volta che conoscevo la felicità (che non fosse per la Juve, s'intenda).
In un paio di mesi ho imparato ad anticipare le tue reazioni, i tuoi pensieri, i tuoi punti di vista. In un paio di mesi per la prima volta nella mia vita, qualcuno mi conosceva davvero. Avevo 18 anni ed era davvero assurdo. Ho iniziato a rivalutare, rivedere gran parte della mia vita.
Poi mi stancavo, ci rinunciavo. Ti chiedevo di uscire e impazzivo aspettando di vederti, senza saperlo.
Riuscivamo a parlare di libri, dischi, politica, sport, aborto, prosciutto crudo, Trump. Tutto. Tutto nella stessa sera. Tutto senza mai lasciare una briciola di dubbio.
C'erano tante persone con noi. Ma io non le ho mai viste. Le conoscevo da anni; loro non mi conoscono ancora. C'era un canale di trasmissione delle nostre voci, delle nostre espressioni, che sembrava funzionare solo per noi. Una corsia di un'autostrada del sud completamente riservata. Gesticolavo, ancor più del solito, perché avevo paura di non trasmetterti il concetto nella purezza con cui lo interpretavo. E temevo il tuo essere sempre così chiara, incisiva e pungente. Lo temevo perché dal canto mio dovevo combattere con il mio essere prolissa e tediosamente logica.
La nostra corsia preferenziale era densa di concetti, movenze e parole da adulti. Densa, densissima. Quasi vischiosa. Come può una corsia con sole due macchine apparire così trafficata.
Nel guardarti mentre "disquisivamo della vita", i contorni di quel tunnel senza pareti erano sfumati. Come se tutto ciò che si trovava intorno esisteva, ma non era importante, rilevante, abbastanza degno di attenzione per me.
In quella densità riuscivo a percepire l'aria faticosamente carica di pensieri che si spostava verso di te, e poi di nuovo tornava da me pungendomi quasi fosse un'ape.
Anni dopo qualcuno, attorno alle 3 di notte, in una minuscola strada di un paese dimenticato da Maps, mi disse: "fossimo stati anche mezzo mondo, per voi esistevate solo voi due." E non intendeva l'escludersi dal mondo, quanto provare a stare nel mondo per poi capire che in realtà quegli occhi volevano sempre guardarsi. Si cercavano spasmodicamente.
Quella colonna d'aria densa di vita, diventò intimità.
A fari spenti, in qualche strada di ghiaia, a baciarsi sul collo. Io non capivo, ma non riuscivo a fermarmi. Tornavo a casa con la testa annebbiata, ma felice. Avevo voglia di chiamarti amore, e di fare l'amore. Iniziavo a distrarmi durante i discorsi, i miei occhi sempre più spesso iniziavano a spostarsi dal ghiaccio della tonica alle tue labbra. O meglio a quel riflesso che ti si crea, sul bordo delle labbra, quando è più di un minuto che non te le mordicchi.
Quel riflesso che dopo anni non sono ancora riuscita a spiegarti.
Ma che mi fa letteralmente perdere la testa.
Le cose andavano veloce e forse iniziavano ad assumere un senso anche per me. Tu mi accuserai di non aver proprio detto tutto, perché le ferite non te le scordi tu, e ci tieni anche a farmi sapere ogni volta che te le lecchi. Sì. Hai ragione. Non ho detto tutto.
Non ho detto della mia parentesi, nella panda di quel tizio a baciarmi solo perché mi sembrava la cosa più facile. Sicuro la meno dolorosa, e poi a lungo andare anche quella più triste. Ti chiedo scusa, ancora oggi.
Sì. Manca ancora qualcosa. Manca tutto il tessuto connettivo di questa storia, la cronologia: quando e come si sono susseguiti gli eventi.
Ho 21 anni e per quante cose mi sono successe, anche nella mia testa quell'ordine si è modificato e non mi appare più così preciso. Non riesco a capire se sono io che ho modificato l'ordine degli eventi per renderlo più romanzesco e romantico; o se forse ero davvero avvolta in quella nube da non riuscire a capire dove finiva il sogno e iniziava la logica. Dove finivano i colori e iniziavano le lacrime.
Ma non era così importante.
Ecco in questi anni, sono cambiata anche nel dare importanza alle cose. Ho iniziato a rivedere le priorità, a scremare. A tratti mi sono sentita quasi minimalista, giunta all'essenzialità. Per poi perdermi nuovamente in qualche meandro.
Ma ne ho fatti di passi in avanti. Il mio circolo ora è un circolo per tesserati, esclusivo quasi (non parliamo di soldi, perché lo sai anche tu che alla fine sto sempre dalla parte dei proletari).
Ho iniziato ad usare le dita della mano per posizionarci i miei punti saldi; anche se qualcuno un giorno, in un bar chic di un paese brutto, mi ha detto di stare attenta, che forse dovevo fermarmi a pensare ad altri punti di riferimento oltre alla Juve.
In parte aveva ragione perché la Juve sulla punta delle mie dita non è mai mancata, ma questa persona in questo bar chic non sapeva tante cose.
Eppure lui fu il sogno chiarificatore che mi tolse tanto fumo dagli occhi.
Chi leggerà questo testo si perderà a questo punto, se non fosse già accaduto prima.
Tu capirai perfettamente. Non ho dubbi.