Uova fatali
Sono almeno dieci minuti che contemplo lo scaffale delle uova sotto alla luce bianca e asettica del supermercato, in piena analysis paralysis: Bodenhaltung, Freilandhaltung, Kleingruppenhaltung, Bio e ovviamente normali, di marchi e provenienze diversi. Ripasso mentalmente le differenze, le informazioni lette online, le garanzie del marchio bio, le immagini delle galline chiuse in gabbie grandi a malapena quanto loro, ammucchiate una sopra all’altra, stipate a migliaia in batterie sterminate, invisibili dalla grande città. Aggirandomi per le colline italiane ho visto più di un pollaio distribuito strategicamente nelle campagne, le luci accese giorno e notte; anche mia nonna aveva le galline: una decina di esemplari dietro casa, un gallo troppo rumoroso per i vicini, una rete e quattro lamiere trasformate in pollaio. D’inverno usava anche una rimessa delle biciclette. Quando facevano i pulcini le lasciava libere per il giardino, badandole mentre faceva le maglie ai ferri; a volte distraeva la gallina per farmi prendere quei batuffoli fra le mani, mentre loro chiamavano disperati la madre. Dalla metropoli è molto difficile immaginare tutto questo, i campi attorno a Berlino sono terreni sabbiosi, piantagioni di patate molto diverse dalle coltivazioni in mezzo alle quali sono cresciuto. Non so esattamente da dove vengano questi cartoni di uova, come le etichettino, chi decida quali catalogare come M, L e XL. Le uova delle galline di mia nonna erano sporche e di colori diversi, a volte anche quelle del supermercato sono sporche ma hanno gusci molto uniformi. Ci sono i cartoni da sei, da otto e da dodici, da dieci no. Quando penso al numero di uova presenti davanti a me, sullo scaffale e nei cartoni accumulati subito sotto, moltiplicate per il numero di supermercati di Berlino, della Germania e d’Europa (oltre non vado, per preservare la mia salute mentale) all’improvviso le pareti e il soffitto si fanno lontani, le scansie ruotano sul loro asse, e io mi trovo a dover fare un passo indietro per non cadere per terra. Per poco non mi scivola il cestino di plastica blu, mi aggrappo a una pila di detersivi, schiacciato dalla vertigine del consumismo globalizzazto. Annaspo, indeciso su cosa fare della mia vita ora, e non più su quali e quante uova prendere. Il mio sguardo vaga per il pavimento lucido fino a che non viene interrotto da un rivolo rosso che viene da dietro la corsia più vicina, non l’avevo notato prima. Un passo di lato, mi affaccio, e capisco che il liquido rosso non è sangue ma vino: una donna sulla trentina, giacca imbottita e jeans, giace riversa sul pavimento, sommersa di confezioni aperte e bottiglie spaccate. Non ci sono ferite apparenti, solo un cumulo di oggetti più o meno biodegradabili. Il suo corpo senza vita si confonde con sacchetti di patatine, tranci di salmone del Pacifico, avocado messicani e kiwi neozelandesi. Il vino era un Merlot californiano da due soldi.