Ut melius videre
Mi sveglio con un messaggio di Francesca sul display che dice: “Amica, mi sa che stai più incasinata di me.”
Richiudo gli occhi velocemente per proteggermi dalle verità della mattina sparate in faccia. Mi vesto lentamente e con cura come quando devo uscire con una persona nuova e speciale, quando mi ritrovo a pensare che forse la prima impressione è veramente quella che conta, anche se alle mie amiche dico di no, che quella è l’anima. (Ce l’ho pure scritto sul braccio sinistro a grandi lettere, non posso mica sfigurare.)
Prima che suoni la campanella mi siedo sul marciapiede di fronte all’edificio, è il mio primo giorno di scuola dall’altro lato della cattedra. Immagino i ragazzi che mi aspettano in piedi sui banchi, li immagino come mostri mutanti a tre teste, con la pelle verde e la bava alla bocca. Mi piacerà poi scoprirli tutti molto belli, dentro e fuori.
Prima di entrare in aula prendo un respiro profondo e guardo la collaboratrice nell’atrio con occhi pieni di speranza e paura, lei stringe le mani in due pugni mimando una lottatrice di boxe aggrottando naso e fronte; devo posare la borsa di tela con forza sulla cattedra e mordermi le guance dall’interno prima che qualcuno faccia segno agli altri di fare un po’ di silenzio.
Mi presento con il mio nome difficile ma per loro sono solo Prof, parola che ripeteranno fino allo sfinimento: ecco come ho perso la mia identità in meno di dieci secondi.
Tra tutti gli alunni mi colpisce A. un tipetto vispo di diciannove anni con gli occhi pieni di luce seppur quasi totalmente nascosti dai capelli. Mi sorride e mormora qualcosa al suo compagno di banco, il bulletto della classe, mentre continua ancora a fissarmi.
Alzo gli occhi al cielo e penso “ma chi me l’ha fatto fare a venticinque anni?”
Dopo aver sistemato maniacalmente la cancelleria sul tavolo e dopo aver imparato a memoria i loro visi mi alzo e alla lavagna scrivo a grandi lettere:
“Che schifo avere vent’anni, però quanto è bello avere paura” e subito qualcuno dal fondo dell’aula mi chiede se può andare a fumare una sigaretta.
Gli dico di sì, che ne avrà bisogno.
Chiacchierano così animatamente che non riesco neppure ad indagare i miei pensieri, finché lentamente si fanno sempre più docili e riesco a sentire solo il fruscìo delle loro penne che sbattono sui banchi mentre di fronte a me iniziano a riempirsi un numero non contabile di fogli protocollo. lo associo al rumore che fanno i vinili quando arrivano al termine e decido che quel suono mi piace molto e che alla fine a me non servono alunni perfetti, mi trovo meglio con quelli inesplosi.
Mi piace imparare a conoscere le persone, prevedere le loro mosse e le parole che useranno e come le disporranno nell’aria di fronte a loro. Forse è per questo che ho deciso di fare l’insegnante, perché vorrei vivere di sguardi biechi, sorrisi misti, mani che frugano, domande che indagano, piedi che ballano, furbi che sbirciano, amori che nascono, cuori che crescono, luci che abbagliano, parole che fioriscono.
Mi tappo gli occhi con le mani finché V. mi chiede perché e io rispondo «ut melius videre».
Torno a casa e per la primissima volta non evito i finestrini delle auto e tutti gli specchi che incontro. Sono diversa, migliore, mi piace guardarmi e sentirmi bella. Ho sempre avuto fiducia nelle rivoluzioni silenziose.
Rispondo al telefono e ci sei tu dall’altra parte che ridi e rido anch’io non so bene perché.
Ti sento leggero, anche tu, diverso dalle ultime volte. Mi racconti che hai firmato un contratto, che il tuo è un lavoro molto difficile ma che realizza gran parte dei tuoi desideri, io ti racconto la stessa identica cosa e iniziamo di nuovo a ridere perché ci risorge nella memoria quell’estate di quattro anni fa, quando seduti nel giardino di casa mia, mentre il sole non riusciva a tramontare, parlavamo timidamente delle nostre vite difficili, degli esami, degli ostacoli e di quanto ci sarebbe piaciuto poter spaccare tutto.
Ora ridiamo perché quel momento è arrivato, siamo finalmente giunti presso la soglia del futuro con le nostre mani ancora intrecciate come alberi. Ci siamo arrivati ammaccati, frantumati, rotti, disintegrati, annientati ma non disillusi. Non è nella nostra natura.
Poi c’è sempre A. che mi fa riflettere in mezzo alla notte, quando non riesco a dormire e mi capita sottomano il suo tema dove scrive: «La verità è che a vent’anni ci pensiamo tutti fighi, ribelli, sfacciati e poi invece ci trovi a fumare negli angoli, a berci le nostre debolezze. Io affronto la vita venticinque metri alla volta. Venticinque metri è la lunghezza della piscina in cui mi alleno tutti i giorni e in cui vorrei affogarmi da quando sono piccolo.»
Segno gli errori grammaticali e sintattici in rosso con gli occhi pieni di lacrime, respiro, raccolgo i fili, torno nella mia realtà: è in questi momenti che può capitare di essere veramente felici.
Il giorno dopo quando entro in classe ci guardiamo e ci sorridiamo a vicenda: ora abbiamo un segreto da mantenere, perché siamo molto simili e lo abbiamo scoperto ma non lo diciamo agli altri che sennò diventano belli come noi.