Come chiami quella sensazione, quel brivido che senti quando soffia quel preciso vento, quando senti quel primo caldo vero, con le sensazioni che ti assalgono, che risalgono attraverso i nervi delle gambe come se uscissero da un passato che sta sotto di te e che attraverso le piante dei piedi appoggiate al terreno scaricano botte di adrenalina, odori e sapori che senti ma non sono lì ma è come se lo fossero, un’energia che non sentivi da tempo, una voglia di essere nuovo, di nuovo, di fare e di rifare?
Sbattono le tende e le serrande di tutti i palazzi attorno, travolti da questo vento che soffia incostante e bizzarro, sputato fuori dal mare e attanagliato dal cemento di questi palazzi irregolari, tirati su senza regola e senza piano. È una frenesia inspiegabile, che si trasmette dall’aria e fa prudere le dita e mi fa pestare sulla tastiera, sempre più veloce come se il tempo non bastasse per raccogliere tutte le sensazioni che esplodono insieme e che temo si dissipino e spariscano. Maledette parole che non sono mai sufficienti, e che sono sia banali che inutili, e che questa energia mia prende in giro. Ascolto musiche che nella mia mente risuonano di passato, di altri tempi, e da quello che normalmente sarebbe una memoria arida risale una frenesia e una voglia di fare che mal si addice all’epoca in cui ci troviamo.
Soffia il vento e tremano le gambe nei pantaloncini finalmente indossati di nuovo, con quella sensazione di frescura unica, inimitabile, che nasce e muore in un solo istante, che senti sui polpacci e sui piedi finalmente nudi dopo i mesi invernali. Freme anche il basso ventre, penso a lei, con sensazioni antiche che riappaiono, mai dimenticate, mai veramente tornate. Penso a lei, e penso a me. Vedo lei, e rivedo me, riscopro me, riscopro una ricchezza che avevo dimenticato, mi riscopro con interesse, rivivo la mia storia, le mie storie, le cose che conosco, le vite che ho vissuto, i posti che sono stati miei e a cui appartengo. Apro una porta e ritrovo tutto quello che posso dare e che avevo dimenticato di avere. Penso a lei, e so che lei pensa a me, e tutta la tecnologia di cui disponiamo in realtà ci limita, fatica a trattenerci, così come a fatica trattengo me stesso dall’andare oltre le leggi dell’autorità per morderle quel collo e graffiare la sua pelle. Respiro. Fremo. Siamo a distanza, siamo fermi, ma è come se corressimo come non mai. Corriamo corriamo, come ho sentito correre solo in canzoni o letto in libri. È tutto vero?
Respiro, mi fermo. Penso, rifletto. Spesso ho trovato me stesso in parole altrui. O, più spesso, ho spalmato me su quelle parole. A un certo punto ho cominciato a pensare che in realtà fosse tutto falso. Cioè che quelle parole che sentivo e leggevo, quelle immagini che vedevo fossero solo finte, il frutto di immaginazioni costruite su immaginazioni fatte di immaginazioni, castelli di parole nati da cortocircuiti masturbatori e fantasie perverse di autori e scrittori che sembravano raccontare qualcosa di me, ma che invece mostravano cosa gli era stato insegnato, per così insegnare a me cosa avrei dovuto sognare.
Ma questo vento mi ricorda di eccezioni. A volte qualcuno, parlando di sé, parla veramente di te, in maniera unicamente onesta. Garcia Lorca parlava dell’acqua. Per lui l’acqua aveva una forza unica, ma solo se in movimento. L’acqua ferma per lui era morta, era la morte. Era il marcio, la putrescenza. Sicuramente una visione antropocentrica, ma alle mie scuole non hanno mai insegnato poesia biologica. Ma ciò di cui parlava Garcia Lorca era parte di me, solo con un diverso elemento. Io amo il vento. L’ho sempre adorato, mi ha sempre dato energia. In qualunque posto, in qualunque momento, il vento è parte di me, e io ci ho volato dentro, mi ci sono immerso. Nel vento trovo vita.
E il vento soffia in queste sere, fa sbattere le finestre e mi fa risvegliare dal torpore. Si leva il vento, e con esso sogni azioni sentimenti possibilità. Espiro, inspiro, lascio che il maestrale del mio respiro esca dalle mie narici per lasciar entrare gli odori di questa città, di cui vorrei parlare ma che non so raccontare, cui non so rendere giustizia, e a cui forse giustizia non è mai stata veramente resa. Inspiro, espiro, spengo la luce, ed è già un altro giorno.