Viva
Chiara prende la bici, percorre quei cinque chilometri che dividono il centro della città da casa sua. Le mani congelate, gli spacchi tra le dita, pedala sempre più forte perché sa che dopo il ponte di legno sopra il fiume la aspetta una discesa e allora può volare.
S’è appena fatta sera, le ciminiere non hanno mai smesso di fumare. Ha i guanti bucati, la sciarpa le copre le labbra, gli occhiali si appannano ma non le importa, deve correre.
Il freddo le entra sotto il cappotto marrone di suo padre, la bici fa uno strano rumore: è uno scassone che ha preso umidità, pioggia, neve, nebbia … vivere nella bassa è una rottura di palle per Chiara e per le bici perché si fa la ruggine sopra e poi scricchiolano per tutta la vita come quando la nonna ha iniziato a farsi vecchia che sembrava un ramoscello.
Nelle orecchie risuona la solita canzone e i Fine Before You Came le ricordano di imparare a lasciarsi galleggiare con un sasso sulla pancia e un pensiero bello in testa. Sembra facile.
La discesa è finita, sorride compiaciuta sotto la sua sciarpa rossa, chiude gli occhi per un paio di secondi: se si deve morire meglio farlo felici. I marciapiedi corrono sotto di lei, le strade sono già vuote e dai palazzi brillano le luci di Natale come sempre in anticipo.
Parcheggia la bici, dà un bacio veloce a suo padre che sta rincasando da lavoro, prende le chiavi della Micra e parte.
Chiara ama andare ai concerti da sola, la fanno sentire libera di essere quello che vuole; si mette le minigonne o i jeans larghi strappati, si sistema il dreadlock, si trucca di nero, si infila gli occhiali, si alza i capelli con le mollette e si scatena e beve finché la pipì non le buca la vescica. Quella sera gli Zen Circus fanno ballare tutto il Covo. C’è chi poga chi ondeggia chi sbatte i capelli da tutte le parti chi fuma chi tocca culi chi si spoglia chi bestemmia. Quel posto per lei profuma di casa: è il locale dove è scappata a quindici anni per andare a sentire Le luci della centrale elettrica, dove ha limonato la prima volta con il Biagio durante un concerto dei Verdena, dove ha bevuto la sua prima birra e dove ha vomitato la prima volta con Il bel canto dei Ministri di sottofondo. Lì al Covo riesce a ritrovare tante piccole parti di sé che a volte pensa siano finite in mezzo alla nebbia tra lo smog o tra le nubi o nel fumo delle ciminiere e invece poi varca la soglia del locale e inizia a ricomporre il puzzle e tutto si fa di nuovo più chiaro, nitido, trasparente.
Chiara non suona, è stonata, ma la musica – intesa come poesia, come letteratura – è la sua più potente arma contro la vita, contro le bestialità del mondo, contro la melodrammaticità della sua esistenza, contro le malattie, le guerre, l’inciviltà, la maleducazione, la fame nel mondo, i pensieri neri che arrivano a oscurarle la mente e gli occhi e il cuore durante le notti di panico, quelle notti in cui il soffitto della sua stanza diventa teatro orrorifico, scenario di sanguinose battaglie tra lei e i suoi fantasmi.
Chiara si scatena, la musica risuona nella sua cassa toracica e sembra quasi frantumarla. Quando il concerto finisce si inchina come per ringraziare, come per rivolgere una preghiera silenziosa verso chi riesce a capirla e a segnarle il giusto cammino pur non potendola mai accarezzare fisicamente. Si rigira la sciarpa sul collo, esce dal locale, si accende l’ultima sigaretta e torna a casa. S’infila sotto il piumone già vestita per l’indomani, con la puzza di sudore e di marcio addosso. Così, senza lavarsi, per non perdere quell’estratto di felicità che quella sera ha un suono ben preciso
Nel frattempo, poco più in basso di Ferrara, Andrea cammina sfinito, si siede in Piazza Santa Croce, i piedi giocano con l’acqua, tira fuori il cellulare e fotografa le pozzanghere che riflettono la chiesa di fronte. Andrea è stanco, ha l’affitto da pagare e le bollette da tenere sotto controllo, sembra un randagio con tutti quei pensieri aggrovigliati sui maglioni e sui capelli da tagliare. Andrea è stanco, non capisce più la differenza tra un colore e l’altro, tra un sorriso e una risata, tra un pianto liberatorio e uno di disperazione. È solo. Si alza dal letto ogni mattina, sbuffa, da un bacio al poster di Capovilla sulla testata del letto; prende il telefono, Marghe gli ha scritto tutta la notte, spegne il telefono prende lo zaino scende e inizia a camminare e trova Firenze che è la sua libertà, la sua chiave di lettura. Da quando se n’è andato da casa dei genitori ha trovato una sua identità, precisa, perfetta, gliela puoi leggere sulla sua schiena dritta quando cammina. Come ora, diretto alla stazione centrale dei treni con le cuffie ben piantate dentro le orecchie, così come ha vissuto per tutta la vita, ovattato, escluso, indipendente ma poco felice.
Arriva a Bologna che è notta fonda, controlla l’orario sul display del cellulare che segna le otto e trenta. Fanculo l’inverno.
Aveva scelto il Covo perché su Sky da settimane passavano un documentario sulla musica indipendente che parlava di questo posto che i punk degli anni ottanta chiamavano “Il Casalone” e allora lui che aveva iniziato con i Clash e i CCCP aveva voglia di rivivere quell’aria che sapeva di eroina e sudore e capelli e creste colorate e che lui, per sfortuna, non aveva avuto il piacere di provare.
Entra nel locale, è pieno di gente fighetta, qualcuno che non riconosce sta suonando in apertura. Si avvicina alla gente: c’è chi piange chi limona chi beve chi fuma chi si fa una canna chi una striscia in bagno. Entra Appino – il frontman della band – Andrea sorride perché vorrebbe urlare ma sembrerebbe un povero coglione lì da solo a cantare, si morde il labbro inferiore e gli occhi si riempiono segretamente di lacrime, tira un pugno nell’aria.
Il nuovo album è una bomba, poi la gente strilla e Appino si butta tra la folla, Andre abbassa lo sguardo e inizia a cantare Viva che è una canzone verissima che gli piace un casino e c’è una frase che dice “sono in crisi da una vita, forse è la mia natura” e la sente proprio sua e vorrebbe averla scritta lui ma lui non sa fare un cazzo. Chiude gli occhi per un attimo e poi vede che s’avvicina una ragazzina: occhiali neri, capelli rossi tirati su, uno svario di nei addosso, una maglia a mezze maniche dei Nirvana, una minigonna, una sciarpa rossa anche con i quaranta gradi del club e un paio di Converse. Inizia a ballare a scuotersi a muoversi e non le sembra vera. Che poi come cazzo fa a ballare con una canzone così triste. Cioè ma è così triste che fa venir voglia di bucarsi di spararsi di prendere la carne e iniziare a morderla e questa balla, ma guarda che cogliona e io che mi vergognavo di urlare. Quella cogliona però la cerca tutta la sera con lo sguardo, lo fa sorridere, lo fa essere contento, quella ragazza è una bomba di vita. La guarda meglio sotto le luci al neon a fine concerto, non è neanche bella e poi tira le fuori le chiavi della macchina e allora quanti cazzo di anni ha? Gli fa un po’ schifo ma la segue fuori, la segue al freddo senza infilarsi la giacca, corre dietro di lei si nasconde si fa un po’ schifo anche lui perché sembra un pervertito. Ride da sola sotto la sua sciarpa rossa, poi s’accende un’altra sigaretta e parte in direzione nord – est.
Si sono conosciuti così Andrea e Chiara: senza neppure accorgersene. Le rivoluzioni silenziose sono sempre le più potenti e mi viene in mente mentre ascolto En e Xanax di Samuele Bersani seduta su un regionale veloce, mentre sorrido ripensando a quella mattina di fine primavera quando eravamo forse in sei ad ascoltarlo in una stanza polverosa dentro gli studi radiofonici di Via Asiago, quando tutto intorno a me era solo sedie vuote e fazzolettini usati tirati fuori dalle maniche sinistre dei paletot: all’infuori di me erano tutti pensionati gonfi di allergia e sinusite. Nella mia memoria è catalogato come il giorno in cui ho imparato a sentirmi a disagio e fuori luogo, anche se a ripensarci adesso forse ero solo gelosa perché il mio mondo intimo e privato si stava ingiustamente affollato, perché era stato invaso da persone che molto probabilmente non stavano capendo un cazzo riguardo il profondo valore di quel precisissimo momento.
Quando ha iniziato a cantare, tra i brusii di chi non conosce l’importanza di una voce, ecco che una scossa ha fatto muovere fortissimo il pavimento sotto di noi, mi sono presa una gran paura ma erano solo le emozioni di tutti che, cadendo, avevano fatto rumore.
Così come adesso, dopo quasi sei anni, vorrei cadere dentro un tombino per non risalire mai più o forse tra le tasche della giacca dove nascondo sempre le mani. Non voglio più prendere decisioni né futuri da pianificare.
Ultimamente mi trascuro un po’ ma lo faccio per andare nei teatri a sentire belle canzoni e a vedere belle persone, per fare lunghi viaggi su tutti quei treni e gli aerei che mi lasceranno un cattivo sapore in bocca. Scelgo sempre le strade meno illuminate, le canzoni più tristi e vorrei che l’autunno durasse più a lungo, che di notte la centrale elettrica vicino casa mia la smettesse di fare rumore. Vorrei riuscire a focalizzarmi solo sulle cose belle, trovare un equilibrio, bere più birra, poter leggere un libro di Marco Missiroli al giorno.
Intanto alle persone dico che l’unica cosa che c’è da sapere su di me è che sono sempre andata alla ricerca di qualcosa di mio che potesse valicare le distanze geografiche. Che ho sempre una storia da raccontare e una sensazione da descrivere.
Vorrei portarti nelle stazioni radiofoniche abbandonate da dove si vede tutta Berlino ma non te lo dico perché vorrei portartici di nascosto quando saremo più grandi, quando insomma sapremo tenerci in piedi a vicenda. Menomale che ultimamente c’incontriamo spesso dentro le strade della nostra città, nei luoghi che ci conoscono a memoria e che ogni volta cercano di spingerci l’una verso l’altro. Una delle cose che mi dà più sollievo è vederti arrivare da lontano, quando faccio finta di non accorgermene e mi giro dall’altra parte per ingannare il tempo e avere qualche secondo in più per sentire la tua mancanza. Mi dà sollievo quando le mie amiche si dispongono intorno ai tavoli di modo che non ci intralcino la visuale, affinché insomma possiamo guardarci tutto il tempo che vogliamo senza dover allungare il collo o strizzare gli occhi miopi. Provo sollievo quando le primissime parole che mi rivolgi ogni giorno indagano preoccupate sulla mia mancata severità a scuola, che ti preoccupi di come stiamo entrambi, io e i miei alunni, che ormai sembriamo un’unica entità.
Stiamo sempre bene, grazie, soprattutto perché me lo chiedi.
Mi sento così stupida e non posso dirtelo, allora lo scrivo qui che tanto non lo leggerai mai per ovvi motivi: mi sveglio spesso alle tre per pensarti. Le due sono di notte, le quattro di mattina, invece le tre nessuno lo sa. Forse è per questo, anzi ne sono sicura.
Come diceva Rilke “ora è tempo che io accada intero”.