Ciao a tuttə, questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finirà nelle vostre email.
Con la newsletter di ieri annunciavamo un nuovo vestito per Fantastico! e, in questo viaggio che non promettiamo breve, si inserisce anche VIVA. Arriveranno altre novità da guardare, ascoltare, vivere, ma tempo al tempo.
Pronti? Via.
«Prima le donne e i bambini»
indica un protocollo informale, una norma sociale che, in situazioni di pericolo di vita, definisce un diritto di priorità per due categorie di persone: le donne e i bambini appunto.
È un'espressione che riporta alla mente il naufragio del Titanic , più di cento anni fa or sono, o gli ostaggi dei film americani. Anche se poi almeno una donna resta e da noiosetta maestra diventa un'eroina, nei casi più fortunati, o s'innamora dello sconosciuto che libera tutti mentre l'FBI può solo aspettare di vederlo uscire sanguinante da una spalla, ma vittorioso.
Un'espressione desueta, insomma. La realtà è ben lontana dai film americani. Nelle situazioni di pericolo sembra vigere la regola del si salvi chi può , chi riesce, chi è più astuto, più forte e in parte gli dice bene, ché la fortuna è un fattore da non escludere.
Le categorie di priorità invece non sono mai state così attuali.
In questi giorni ha infervorato il dibattito sui vaccini.
«Chi ne ha più diritto?» Ci si è chiesto.
«Gli anziani perché sono più fragili» hanno suggerito alcuni.
«Che i vecchi stiano a casa, ne hanno più bisogno i giovani in età da lavoro» hanno ribattuto altri.
La logica della produzione conosce regole che l'etica non considera. E viceversa.
Una solfa infinita di teorie e controteorie che nulla ha aggiunto all'individuazione delle categorie aventi diritto di priorità sulla base di età, fragilità e esposizione al rischio. Categorie in cui non stati inseriti i giornalisti che per qualcuno sono stati «non utili, necessari». Segue altra polemica di interesse generale.
Quindi prima gli anziani, i disabili, le forze dell'ordine, il personale sanitario e quello scolastico.
Ma su base volontaria.
E assumendosi la responsabilità di effetti indesiderati più o meno gravi nel lungo termine.
Dopo un anno di pandemia è stata proposta una soluzione di efficacia incerta e incentrata sull'assumersi il rischio.
E se è vero che rischio e incertezza sono parte integrante di ogni società, dacchè esse esistano, va considerato che viviamo oggi appieno la Risikogesellschaft codificata dal sociologo tedesco Ulrich Beck: una società del rischio che espone tutti a rischi incalcolabili sulla base di una non prevedibilità e apre così a nuove forme di democratizzazione della vita.
Non viviamo in un mondo più pericoloso di quello di prima, ma ne abbiamo più sentore perché:
«Il rischio è al centro della vita di ognuno di noi e al centro del dibattito pubblico, perché oramai lo percepiamo ovunque. Ed è ovunque.»
Un rischio a cui tutti siamo esposti e che abbiamo il dovere di fronteggiare senza però avere lo stesso equipaggiamento. Appare oggi evidente una nuova disuguaglianza, che non è più solo economica, ma va a soppesare differenti risorse emotive e cognitive necessarie a saper vivere.
Saper vivere nella società del rischio significa fronteggiare il rischio trovando delle spiegazioni in grado di controbilanciare il gravoso compito di essere in maniera incessante artefici del nostro destino. Significa costruire un'imbracatura per avere un po' meno paura quando la vita spietata ci chiederà di fare da funamboli senza alcuna rete di sicurezza.
Saper vivere nella società del rischio vuol dire avere consapevolezza per mantenere la calma mentre tutto intorno il caos regna sovrano.
Le lance di salvataggio del Titanic potevano ospitare solo il 53% delle persone a bordo. Se ne salvarono molte di meno. 2223 persone a bordo, 1178 posti sulle lance di cui solo 705 furono davvero occupati. Molte lance furono calate in mare mezze vuote perché i marinai avevano il timore che avrebbero potuto cedere. Altri poi mal intesero il prima donne e bambini e non fecero salire gli uomini, anche se vi era spazio. Un protocollo mal spiegato costò la vita di centinaia di uomini. Il primo ufficiale di coperta invece William McMaster Murdoch fece salire indistintamente uomini e donne, di tutte le classi, cercando di riempirle al massimo. Strappò così molte vite a morte certa.
Bisogna restare lucidi per «non trasformare le emergenze in panico sociale e le paure in catastrofi.»
di Tonia Peluso, sociologa
AstraZeneca, paura in Europa.
Due lotti di vaccino sospettati di avere causato trombosi fatali, nove paesi li ritirano. Tre casi in Italia, bloccata la somministrazione.
La Repubblica
Avendo ricevuto la prima dose dello stesso vaccino, avverto una lieve preoccupazione. Cosa sta succedendo? Mi domando.
Vado su Google, digito “Vaccino AstraZeneca sospeso”.
AstraZeneca, Sonia in fin di vita dopo il vaccino a Napoli: “Stava meglio, era perfino tornata a scuola”. (Il Mattino)
(Meglio rispetto a quando? Ha avuto dei sintomi dopo il vaccino e poi è peggiorata? Ora come sta?)
AstraZeneca, mi sono vaccinato: ora cosa devo fare? “Chi non accusa sintomi dopo la prima dose è al sicuro”. (Il Messaggero)
(Ho accusato sintomi di lieve/media entità, come la gran parte delle persone che conosco che si sono sottoposte alla vaccinazione con AZ. Non sono al sicuro?)
Provo ad approfondire le notizie da Smartphone, ma non posso farlo perché non sono abbonata.
La pluralità delle fonti delle quali oggi disponiamo aumenta la confusione e incide sui processi decisionali.
Seguono cinque minuti in cui una serie di pensieri fanno capolino, pensieri che non avevo mai fatto fino a quel momento.
“La seconda dose non la faccio”.
“Chissà, a questo punto, quali saranno gli effetti a lungo termine”.
“Perché l’ho fatto?”.
Provo a recuperare lucidità.
Mi accorgo che qualcosa non torna.
Chiamo il mio medico. Mi conferma che, di fatto, i dati dei quali gli scienziati dispongono non giustificano l’eccessiva preoccupazione; indagare è fondamentale, ma non è mai stato dimostrato un nesso causale tra la somministrazione del vaccino AZ e le morti. I benefici del sottoporsi alla vaccinazione superano il rischio di contrarre il virus e sviluppare l’infezione.
Non c’è nesso causale. All’improvviso, sto meglio. Permane tuttavia un vissuto di sfiducia.
Le persone sono mediamente più impressionate dalle notizie negative, che da quelle positive, essendo, le notizie negative, quelle alle quali si è generalmente più esposti. Questo innesca meccanismi di sfiducia.
Costruire fiducia richiede molto più tempo di quello sufficiente a perderla.
Nell’ambito della psicologia dell’emergenza, la comunicazione dei rischi assume un ruolo cruciale.
Scopo di tale comunicazione è quello di informare, favorendo il cambiamento, quindi il processo di adattamento, affinché le persone possano modificare i propri comportamenti in funzione delle richieste ambientali.
Perché la comunicazione sia efficace, in tal senso, è utile superare alcune difficoltà (Sbattella, 2009), tra le quali l’illusione della certezza. Mi scrive una ragazza: “Se in medicina il rischio zero non esiste, come si fa ad accettare di essere in quella ridente percentuale di persone che svilupperanno effetti collaterali gravi?”
Come si fa?
Accettando che, per via di questa nostra condizione di essere umani, non ci è concesso pretendere certezze assolute e, illudersi sia possibile, sarebbe oltremodo sconveniente. Da sempre firmiamo consensi in cui ci vengono presentati i rischi di un medicinale, di un intervento, della scelta di qualcuno che deve agire nel nostro interesse.
Si definisce rischio l’eventualità di subire un danno connessa a circostanze piò o meno prevedibili. Differisce dal pericolo, sul quale abbiamo un minor potere decisionale
Le strategie decisionali umane seguono spesso i procedimenti euristici, scorciatoie mentali che possono trarci in inganno.
Una comunicazione preventiva efficace deve sollevare un livello di allerta tollerabile dei soggetti che ottengono le informazioni.
Quando uscì il primo (e ultimo) spot, di Tornatore, per la campagna vaccinale, arrivarono puntuali le precisazioni degli esperti di comunicazione. Lo spot non va bene, non bisogna lasciare che le persone coltivino i loro dubbi, bisogna convincerle.
Cedetti anche io a questa lettura, della quale ho lasciato pubblicamente traccia, per onestà.
Però poi arrivò a me la chiamata. Da quel momento in poi ho riconsiderato l’importanza di esercitare il dubbio, in un momento come questo, anche davanti alla possibilità di essere vaccinati. Non ero scettica, ero piuttosto convinta. Avvertivo però che mi mancavano delle informazioni. Sono andata a cercarle, soprattutto quelle relative a un’eventuale gravidanza tra una dose e l’altra e sono riuscita a reperirle, ma è stato un lavoro faticoso, sotto molti punti di vista.
È a partire dal dubbio che mi sono informata, confrontata, che ho scelto consapevolmente.
Ma se non avessi avuto gli strumenti cognitivi e pratici per farlo?
Quella stessa consapevolezza mi ha permesso di recuperare lucidità quando, per qualche minuto, ho vacillato. L’avevo scelto e l’eventuale esito negativo di una scelta fatta da noi è possibile sia più gestibile di un danno procurato da altri.
Informatevi.
Scegliete consapevolmente.
Allenate la vostra mente a non essere tratta in inganno.
di Arianna Capulli, psicologa