VIVA #11
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email. Nei prossimi giorni vi arriverà una comunicazione importante da Fantastico!, ma tempo al tempo.
Aneddoti salva serata
di Tonia Peluso
La situazione è questa: lo guardi, ti guarda, gli sorridi, ti sorride, sospiri, sospira, segue silenzio imbarazzante: non sai proprio cosa dire.
Almeno una volta è successo a tutti, un momento di vuoto, la mancanza di argomenti e la dignità di non portare la conversazione sul tempo che è troppo freddo o troppo caldo, il buonsenso di non inserire una frase fatta su tema sociale, aprendo una pagina a caso del recente successo mondiale Essere boomer è uno stato d’animo, anche sei hai 30 anni.
Certo si potrebbe ricorrere a temi di attualità. Questa settimana a tal proposito di cose ne sono successe.
Mimmo Lucano viene condannato in primo grado a 13 anni per presunti illeciti nell’accoglienza ai migranti con il Modello Riace, il doppio degli anni richiesti dall'accusa e uno in più a Luca Trani che sui migranti ci sparò.
Luca Morisi cede sostanze, al contrario di Stefano Cucchi che spacciava. Ma è risaputo che possano esserci fragilità esistenziali che ti portano a commettere errori personali davanti ai quali bisogna restare garantisti mentre gli amici ti tendono la mano, se sei la Bestia che ha costruito la macchina comunicativa dell’odio del peggior partito politico del secondo dopoguerra. Se invece sei un ragazzo comune sei un drogato, spacciatore, meritevole di morire a 31 anni tra indifferenza e accuse. L’humana pietas a uso personalistico.
Il mondo dei reality ha toccato forse una delle pagine più basse mai viste tra uno stupro sotto i riflettori a La Fazenda in Brasile e una discussione dai toni allucinanti su razzismo, sessismo, bullismo e salute mentale ridotti tutti a «Il politicamente corretto ci ha rotto le palle» urlato dal conduttore con voce stizzita, non prima di aver chiuso il collegamento con i concorrenti che sbraitavano, piangevano, vendevano anche gli ultimi brandelli di dignità a favore di camera. Una delle pagine più basse, dicevo. Ma temo che di peggio si possa ancora fare.
Eliminata con sapienza la tentazione di intavolare un discorso su argomenti tendenziosi che potrebbero far rovinare rapporti in maniera precipitosa o farti finire mani in faccia con commensali conosciuti poche ore prima, si ritorna allo stesso punto: di che parliamo?
Per sconfiggere l’imbarazzo è possibile tirare fuori gli aneddoti salva serata, ossia storielle strambe, curiosità dal mondo, veri appigli a cui aggrapparsi per tirarsi fuori da quel silenzio che rischia di mettere a dura prova anche i più sfrontati. A tal proposito è stato stimato che il silenzio massimo accettato in una conversazione è di quattro secondi. Oltre questo tempo limite si fa strada l’imbarazzo e viene messa in crisi la propria capacità di validazione sociale. Ecco questo potrebbe già essere un aneddoto salva serata, ne ho scelti però cinque.
1 La parola più lunga del mondo ha 189,819 lettere e per leggerla servono 3 ore e mezzo. È il nome scientifico di una proteina, la Titina. Nel linguaggio non scientifico invece, secondo il Dizionario Garzanti della lingua italiana, la parola più lunga è precipitevolissimevolmente: il superlativo di precipitevolmente conta 26 lettere. Faccio ricorso perché Supercalifragilistichespiralidoso ne contiene 33 e poi conosco imprecazioni napoletane che vanno ben oltre.
2 Da 15 anni a questa parte ad aprile Istanbul si veste a festa per il Festival dei Tulipani. Si piantano in città circa 12 milioni i bulbi di tulipani, appartenenti a quasi 200 varietà diverse. Un modo per dare vita alla città copiando la tradizione olandese, si potrebbe pensare. E invece lo scopo è quello di restituire a Istanbul il suo simbolo, appunto i tulipani, che sono originari proprio della Turchia e sono arrivati in Olanda dal Kazakhistan attraverso l’Impero Ottomano. A partire dal secondo dopoguerra sono diventati poi un simbolo dei Paesi Bassi e uno dei tratti distintividella cultura olandese nel mondo.
Potrei qui raccontare di quella volta che volevo piantarli in terrazza ad agosto certa che sarebbero fioriti (il periodo indicato è più o meno novembre).
3 Ah, che bell' 'o cafè / Pure in carcere 'o sanno fa / Co' a ricetta ch'a Ciccirinella /Compagno di cella, c'ha dato mammà, canta De André in Don Raffaè. Eppure, nonostante questa convinzione diffusa e le immagini glitterate di buongiornissimo caffè che circolano su Facebook e – tra i più audaci – su Whatsapp, non siamo i primi consumatori al mondo di caffè. Il paese dove si consuma più caffè è la Finlandia dove ogni cittadino beve in media 12 chilogrammi di caffè all’anno; in Norvegia 9,9 chilogrammi; in Islanda 9 chilogrammi e in Danimarca 8,7. Allora l’Italia, la madre putativa dell’espresso, sarà per forza quinta. No, tredicesima. Non trovo parole meno dolorose per dirlo. Che poi la genialità di questa notizia è che da un’allure internazionale alla ormai nota polemica tutta twitteriana sul caffè meglio a Napoli che altrove, con il perenne spin-off sul confronto Napoli-Milano. Per dare un’idea dell’irrazionalità toccata intorno a questo argomento di vitale importanza basti pensare al delirio scaturitointrono a un semplice tweet datato 2019 che a oggi mi fa ancora ridere ma anche riflettere.
[Da leggere con in mano un caffè, ristretto, non deca.]
4 Il Canada è il secondo paese più grande al mondo, ma ha una popolazione inferiore a quella italiana: vi vivono attualmente 37 milioni di persone rispetto ai 59,55 milioni in Italia. Il 90% del territorio canadese è disabitato, ricoperto di parchi, monti, laghi e foreste. L’acqua è l’elemento predominante: in Canada ci sono più laghi che in tutto il resto del mondo - circa 3 milioni – e il 20% dell’acqua dolce mondiale. Qui uno poi ci attacca la tematica ambientale e la serata è svoltata.
5 Il Natale è nell’immaginario cristiano una festa religiosa, un momento di raccoglimento, di celebrazione della nascita di Gesù e di rinascita per sé stessi. Non in Giappone. In Giappone il Natale è una festa romantica, un momento di felicità soprattutto per le famiglie con i bambini. L’usanza vuole che si mangi pollo fritto perché la magia del Natale è approdata in Giappone soprattutto grazie alle campagne pubblicitarie di KFC che ha ideato anche un menu speciale Kentucky for Christmas; una confezione nataliziacon pollo, insalata e torta. I regali però sono soliti solo tra innamorati come nel nostro giorno di San Valentino. Dolce tipico natalizio è la Christmas Cake, ossia una semplice torta di pan di spagna con panna montata e decorata con fragole e immagini di Babbo Natale. Nonostante non abbia un’esegesi cristiana e non rappresenti una festa nazionale – scuole e uffici a esempio sono aperti – il Natale è una festa molto sentita per il clima di felicità condivisa e già da novembre le città giapponesi si rivestono diluminarie, addobbi natalizi e mercatini di Natale in stile europeo.Roppongi Hills è quello più famoso.
Con molta onestà dico che non saprei dare una precisa utilità a quest’ultimo aneddoto, né saprei dire quando sarebbe più opportuno da usare. Con altrettanta onestà dico che non mi piace questa necessità di dover ricorrere a fattarelli per intrattenere, curiosità per stupire, escamotage per uscire da un imbarazzo che è frutto solo della paura di non essere all’altezza tipica di chi tende a mettersi sempre al centro della propria osservazione, caricandosi a volte nell’interazione con gli altri di aspettative irrealizzabili.
Prendiamo i miei aneddoti salva serata e cestiniamoli, che ci cose molto più importanti da dire.
Possiamo parlare di noi, di ciò che ci circonda. Di quello che pensiamo su noi e su ciò che ci circonda. Possiamo osservare e fare domande. E possiamo anche restare in silenzio, perché no. Possiamo concederci di intavolare una discussione sbagliata o prenderci il lusso di non avere niente da dire. È la nostra vita, non un reality Mediaset, nessun conduttore potrà staccarci il collegamento per imporci l’ennesima filippica volta a insegnarci come si sta al mondo.
Abbiamo cose più importanti da dire, anche se a onor del vero io la discussione sul caffè di tanto in tanto me la giocherei.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Domandare è lecito, rispondere è cortesia e i proverbi non sbagliano mai
di Arianna Capulli
Quante volte avete sentito parlare di Abilità Sociali?
Non lasciamoci confondere dal termine “abilità”, perché, come vedremo, le “competenze sociali” non sono qualcosa con cui si nasce o a cui bisogna rinunciare per l’intera vita. È possibile allenarle, attraverso training strutturati, individuali o gruppali, condotti da professionisti della salute mentale. Capiremo perché non sia conveniente affidarsi a chi non è qualificato.
La definizione, come spesso accade, è una sintesi che integra le diverse definizioni presenti in letteratura. Definiamo Abilità Sociali l’insieme dei comportamenti, di natura verbale e non verbale, che la persona attua nel contesto delle sue relazioni interpersonali. Tali comportamenti favoriscono l’adattamento della persona all’ambiente e la capacità di mantenere una solida rete di supporto sociale. È bene ricordare che i nostri comportamenti sono l’esito di processi cognitivi ed emotivi, in quest’ordine. Quando parliamo di comportamenti “adattivi” ci riferiamo pertanto a modalità acquisite e consolidate, anche e soprattutto a partire da un processo di consapevolezza che riduca al minimo le distorsioni cognitive comuni a tutti gli esseri umani e, di conseguenza, che aiuti a sviluppare una migliore capacità di riconoscimento e gestione delle proprie emozioni.
Molti di questi comportamenti si apprendono in famiglia, attraverso l’osservazione del comportamento di figure significative e la consapevolezza circa l’adeguatezza o meno di alcuni comportamenti quindi tramite il rinforzo di quelli validi socialmente, dove per “comportamento valido” s’intende una modalità che, tenendo conto delle differenze individuali, protegga la persona stessa e le sue interazioni, anche nel caso di conflittualità.
Anche le relazioni col gruppo dei pari, in età scolare, hanno un ruolo significativo nella maturazione di competenze emotive, cognitive e comportamentali.
Il contesto scolastico è il primo contesto al quale ci viene richiesto di adattarci, sin dai primi anni di vita. Favorire i principi della buona comunicazione, l’automonitoraggio dei propri vissuti quindi l’autoaffermazione aumenta notevolmente la possibilità di un’esperienza scolastica positiva e facilita la strutturazione di un senso del sé adeguato, coerente con i propri valori e con l’ambiente circostante.
Questo, chiaramente, in funzione del grado d’istruzione, in un’evoluzione che raggiunge il suo picco massimo negli anni dell’adolescenza. Sex Education, serie Netflix di grande successo, rende l’idea, oltre la questione dell’educazione sessuale, di quanto sia importante imparare a conoscersi attraverso le proprie esperienze, chiedendo aiuto quando quelle stesse esperienze ci confondono, portandoci a compiere scelte poco funzionali al nostro benessere.
Quali sono questi comportamenti? Tra quelli individuati da Goldstein et Al., ci occuperemo oggi di quelli relativi alla cosiddetta assertività. Con questo termine ci si riferisce alla capacità di una persona di riconoscere le proprie esigenze e di affermarle, esprimendole, con l’obiettivo di mantenere fede ai propri scopi e, al contempo, di coltivare una relazione positiva con gli altri. Una persona socialmente abile, in tal senso, è una persona che ha la capacità di riconoscere le proprie esigenze all’interno di una situazione interpersonale e/o di una relazione con le figure significative e di esprimerle facilitando la comunicazione, riducendo il rischio che tale espressione venga interpretata dal destinatario della comunicazione come una modalità passiva e/o aggressiva.
Il comportamento assertivo pone la persona nella condizione di agire nel proprio interesse, di difendersi senza risultare aggressiva, di sentirsi a proprio agio nell’espressione delle proprie emozioni e dei propri sentimenti, di esercitare i diritti personali senza danneggiare l’altro, ledendo i suoi diritti.
Porre un confine d’assertività tra noi e l’Altro è un buon modo per rimanere fedeli al principio “La mia libertà finisce dove inizia la tua”.
Prendiamo, come esempio, quello che è accaduto negli ultimi mesi.
Quante volte ci siamo trovati a dover gestire la tentazione di voler convincere qualcuno rispetto a ciò che, secondo noi, sarebbe stato giusto o sbagliato? Quante energie abbiamo speso per rincorrere questa nostra pretesa? Qualcuno è riuscito a convincere almeno una persona a rivedere una sua scelta, con buona probabilità fondata su una distorsione cognitiva generalizzata, nel migliore dei casi e, nel peggiore, su una paura della quale la società, esausta, non è stata disposta a farsi carico? (Non c’è giudizio, né da un lato né dall’altro). Volendo essere ottimista, escludendo da questo ragionamento le scelte del governo quindi le imposizioni e trascurando le critiche all’informazione, immagino che la statistica non deponga a nostro favore.
Quindi l’abilità sta nella rinuncia al confronto? No, l’abilità consiste nell’esporre il proprio punto di vista, accettando il punto di vista dell’altro, non negando il disaccordo, esercitando la riflessione e il comportamento critici.
La gran parte dei comportamenti assertivi verbali si esercitano a partire da forme di comunicazione adeguate. L’obiettivo non è imparare le formule a memoria, ma fare in modo che quelle stesse forme, essendo l’esito di un buon processo di consapevolezza, insorgano spontaneamente.
Se mi arrabbio e accuso l’Altro d’avermi fatto arrabbiare, quante probabilità ci sono che quell’interazione non degeneri in conflitto?” e, ancora, “Sono più interessata a ribadire la mia rabbia e, casomai, a un confronto, o il mio intento è quello di far sentire in colpa l’altro?”. Ma, soprattutto, “Mi sono domandato perché mi sto arrabbiando?” quindi “La mia rabbia, sono sicuro sia la diretta conseguenza del comportamento dell’altro oppure scaturisce dal modo in cui io l’ho letto, interpretato?”.
Interpretiamo quello che gli altri fanno sulla base delle nostre convinzioni, dei nostri valori, ideali, delle nostre preferenze. Una maggiore conoscenza dei nostri processi cognitivi ed emotivi ci consente di comprendere meglio ciò che sta accadendo dentro di noi quindi di riconoscere che non sarà la reazione aggressiva, né la rinuncia all’affermazione delle nostre preferenze a proteggerci dall’eventualità che al di là del nostro confine accada qualcosa che non ci piace, che ci ferisce.
La capacità di fare/rifiutare richieste è un’abilità sociale che ci consente di non trovarci nella condizione di accettare passivamente le decisioni/insistenze altrui e di chiarire ciò che vorremmo accadesse, lasciando l’Altro libero di scegliere.
Noi possiamo scegliere, gli altri possono scegliere.
Se avvertiamo la necessità di chiedere aiuto a un amico, lui sarà libero di scegliere se accettare o meno di aiutarci e, se anche lui si concentrerà sulla sua libera scelta, quindi sulla valutazione di quello che sarebbe per lui più o meno opportuno fare, le possibilità sono due: l’arrivo di un aiuto sincero, commisurato a una richiesta formulata in modo chiaro o il rifiuto motivato dall’esperienza soggettiva dell’amico, che, auspicabilmente, chiarirà i motivi di quel rifiuto. Entrambi, quindi, ci sentiremo liberi, di chiedere aiuto un’altra volta così come di rifiutare di darlo, qualora la richiesta non fosse commisurata alle risorse che abbiamo a disposizione.
Noi scegliamo e gli altri scelgono.
Agiamo, tutti, sulla base delle nostre motivazioni, delle nostre convinzioni, dei nostri vissuti che spesso sono sensibilmente distanti da quelli degli altri.
Un’azione che io leggo a pratico come una gentilezza potrebbe essere interpretata come il tentativo di sminuire la capacità dell’altro.
I confini non sono muri, barriere. Non allontanano né dividono. Proteggono il nostro Sé e rispettano quello dell’Altro, sono la panchina dove ci si incontra per affermare se stessi, cercando, al contempo, il punto d’incontro con l’altro. L’affermazione non è prevaricazione, se praticata assertivamente.
“Io credo che”, più che “Non è come dici tu”.
“A me piace”, più che “Devi provarlo, deve piacerti”.
“Questo tuo comportamento mi delude”, più che “Mi hai deluso”.
“Forse non ho capito bene”, più che “Ti sei spiegato male”.
“Forse non mi sono spiegato bene”, più che “Non hai capito”.
“Non sei tu, sono io”, manifesto dell’amore non corrisposto è, in realtà, una formula che funziona, benché sia difficile da accettare.
Non sei tu, sono io, significa che tu non puoi fare nulla perché per me le cose cambino e, sicuramente il senso d’impotenza ti farà vivere dei momenti di difficoltà, ma quanto sarebbe più disonesto affidarti la responsabilità del mio vissuto che, a conclusione e per ribadire, non dipende esclusivamente dai tuoi comportamenti?
(Trovi questo articolo anche su Medium)