VIVA #13
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Abbiamo fatto Tredici
di Antonietta Peluso
Abbiamo fatto Tredici, ma non siamo scappate alle Hawaii.
Questo è il numero 13 di Viva, abbiamo preso una pausa la scorsa domenica, concordandola col pragmatismo che contraddistingue me e Arianna. Essere pragmatici è per me una gran virtù, soprattutto in questo tempo in cui è alto il rischio di perdersi in astrazioni.
Fare Tredici nel linguaggio comune vuol dire fare fortuna, vederti cascare addosso l’occasione che ti cambierà la vita. È un’espressione popolare, retaggio di un tempo in cui in Italia fare Tredici era il sogno e il Totocalcio pareva essere la soluzione a molti problemi. Un Tredici, da oltre un miliardo di lire, è il riscatto di Lino, interpretato da Lino Banfi, in Al bar dello sport. Immagine che ben sintetizza il sogno di rivalsa che nel Paese si è vissuto in quegli anni.
La gente al Totocalcio ci credeva davvero, come alle grazie e al sangue di San Gennaro. I vincitori diventavano delle rockstar, intervistate in televisione, il loro viso andava ovunque quando non era ancora solito metterlo sui social. Emilio Blasetti fu il primo vincitore della storia, incassando il 21 luglio 1946 ben 463.846 di lire. La vincita più alta ci fu però nel 1993: il montepremi ammontò a 34.475.852.492 di lire, un numero che faccio fatica a leggere, non perché io sia ormai abituata al cambio in euro, ma mi fermo proprio alle prime cinque cifre. I liberi professionisti trentenni che mi leggono capiranno il perché. Tante vittorie celebri ma una su tutte: la domenica nera datata 24 agosto 2003, giorno in cui più persone festeggiarono l’aver fatto tredici. Festeggiarono in realtà per poco, in tutti i sensi possibili. Festeggiarono giusto il tempo di scoprire che con loro stavano festeggiando, per poco anch’essi, 55mila persone. Fu la vittoria più bassa di sempre, i vincitori portarono a casa due euro ciascuno.
Ecco io al Totocalcio non ci ho mai giocato, ma sono certa che se l’avessi fatto avrei vinto qualcosa come un euro e novanta. A ste robe non ci ho mai creduto, mai ci crederò. Le occasioni non ti cadono addosso, non basta mettere tredici crocette giuste e tutto si risolve. A volte succede, ma è l’eccezione. La vita non è fatta di eccezioni però. È fatta di regolarità, di nessi causali. È fatta delle scelte che prendiamo — a volte a culo questo c’è da ammetterlo — ogni volta che siamo a un bivio.
«Quante vite avrei voluto, quante vite avrei vissuto. Quante alternative per chi vive in una vita sola. Quante prospettive per potersi innamorare ancora di altre vite, con altre vite perché c’è sempre un′altra vita possibile nella vita» canta Enrico Ruggeri nella sigla di un programma che ha condotto nella prima decade del 2000. Si chiamava Il bivio — Cosa sarebbe successo se… e faceva rivivere a personaggi, noti o meno, il momento in cui avevano preso una scelta importante ipotizzando cosa sarebbe potuto succedere se quel giorno avessero deciso di incamminarsi nel lato opposto del bivio. La me adolescente ha amato quel programma a cui oggi riconosco a tratti una natura grottesca ma anche un racconto limitato. Le scelte non sono mai solo due e davanti non abbiamo biforcazioni, ma piuttosto labirinti. Ci infiliamo in percorsi con il rischio di perderci, accettiamo a volte opzioni che ci dequalificano perché crediamo alla speranza di un domani migliore. «Si inizia a poco a poco» ci hanno detto. «Bisogna fare gavetta» siamo stati abituati a sentire come un mantra. E poi gli inizi sono rimasti inizi, anche quando ormai di tempo ne era passato, e la gavetta è diventata la scusa per uno sfruttamento socialmente accettato.
Che sia chiaro, resta per me sacrosanto il concetto di gavetta e di saper riconoscere quando è il momento di iniziare. Mi piacerebbe però che non fosse negato il tempo della crescita, perché altrimenti il rischio è quello di una società che resta ferma su sé stessa, di noi che restiamo fermi su noi stessi. Il rischio è che, a furia di abituarci ad aspettare, non alziamo più il culo dal gradino più basso, fermi sul ciglio della strada a guardare la vita ancora da realizzare scorrerci davanti. Ce ne stiamo inermi, come Vladimir ed Estragon che aspettano Godot. Ma Godot non arriva mai, si limita a mandare un messaggero per informarli che Godot «Oggi non verrà, ma verrà domani». E il domani arriva, ma Godot no. Sono pazienti Vladimir ed Estragon, più che pazienti sono arresi, non hanno nulla da perdere. A guardarli a volte viene da ridere e a volte vien da piangere. Siamo pazienti a volte noi, più che pazienti siamo arresi. Ma noi abbiamo tanto da perdere, perché la vita non è un dramma di Beckett, è la vita. Sembra banale messo così, ma non credo serva un modo più complesso per dirlo. E non credo neanche che valga la pena attendere un avvenimento che non arriverà mai a cambiare le nostre sorti. Forse bastava soltanto alzarsi e andargli incontro e Godot sarebbe arrivato. Forse ci basta soltanto tentare di uscire dalle impasse biografiche in cui finiamo arenati, provando a scegliere delle priorità intorno a cui costruire dei percorsi.
Forse il primo passo è non perderci nelle ipotesi di ciò che poteva essere e invece non è stato. Se avessi svoltato a destra quel giorno, se non avessi mandato quel messaggio, se avessi detto ciò che pensavo realmente, se avessi mentito con più credibilità, se avessi scelto una facoltà migliore, se non avessi perso a volte tempo, se fossi andata a quell’evento, se avessi dormito di più prima di quel colloquio di lavoro, se non avessi ascoltato le dicerie della gente, se fossi nata in un’altra città, se la società fosse più giusta. Se avessi, se fossi. Se, milioni di se.
Se avessi vissuto una vita diversa forse sarebbe andata meglio. O forse peggio. Di se e di ma non si campa e manco si muore. Si aspetta. Intanto intorno la vita scorre.
Nell’opera di Beckett c’è un passaggio che mi colpisce sempre tanto. «Sognavo di essere felice» dice a un tratto Gogo. «Intanto il tempo è passato» risponde Didi.
Il mio tempo invece è ancora al presente.
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Il pensiero magico
di Arianna Capulli
La triscaidecafobia (dal greco τρεισκαίδεκα treiskaídeka, “tredici” e φόβος phóbos, “paura2) è la paura irragionevole del numero 13. Il termine apparse per la prima volta nell’opera dello psichiatra e neurologo americano Isador Coriat, “Abnormal Psychology”. La fobia specifica del venerdì 13 è chiamata invece parascevedecatriafobia. La paura del martedì 13 è la trezidavomartiofobia.
Le fobie specifiche, secondo il DSM-5, sono caratterizzate da vissuti di paura o ansia verso o un oggetto o situazione specifici, sproporzionati rispetto al reale pericolo rappresentato dall’oggetto e che causano disagio clinicamente significativo. In sintesi: se ci svegliamo pensando “Oh no, è venerdì 13!”, ma poi andiamo comunque a lavorare, l’abbiamo scampata.
Lo so che sembra difficile crederci, ma parrebbe che la superstizione legata al numero 13 sia di origine scandinava e solo poi si sarebbe diffusa in Europa, complice anche la presenza di un tale chiamato Giuda a una famosa cena finita male. Stranamente, quindi, non l’abbiamo inventata noi, mastri artigiani del pensiero magico.
Vi risparmio tutte le teorie che dovrebbero confermare la superstizione, perché se lo facessi non farei altro che dare da mangiare al bias di conferma che alberga in ognuno di noi e si nutre di tesi antiscientifiche.
Qualcuno ipotizza il numero 13 sia stato esso stesso così sfigato da succedere al numero 12, amato da molti, divisibile per due, per tre, per quattro, per sei; un numero in più invece scombina i piani, spaia l’insieme. Non sarebbe quindi il 13 a non essere all’altezza, ma il 12 a essere fastidiosamente perfetto. Forse l’unica versione che mi sento di appoggiare, una bella metafora di vita che pone il povero numeretto sfortunato nella stessa condizione di chi viene interrogato dopo il trenta e lode di chi è stato esaminato prima di lui. In tal senso, il poverino sarebbe vittima delle nostre aspettative poco realistiche e sarebbe piuttosto facile trovare l’antitesi: il 13 porterebbe sempre sfortuna solo se il 12 portasse sempre fortuna.
Sta di fatto che questo numero sembrerebbe avere un grande impatto sulla società, a differenti latitudini e longitudini. Alcune compagnie aeree saltano la fila e i posti 13 e 17. In alcuni hotel, il tredicesimo piano non esiste o viene utilizzato per i servizi. Ci sono molti altri esempi di aziende e/o servizi pubblici che non sappiamo se propendano all’eliminazione del 13 perché il capo è scaramantico o per evitare che i loro clienti si lascino condizionare negativamente.
Il pensiero magico è l’espediente cognitivo che i bambini dai 2 anni ai 7/8 anni circa hanno a disposizione per vivere in un mondo per loro ancora di difficile comprensione. Se non posso capire perché una cosa succede, non posso evitarla o difendermi qualora ve ne fosse la necessità, quindi se non posso evitare che il mostro cattivo venga a trovarmi di notte posso dormire col mio orsetto di peluche che mi proteggerà dalla visita sgradita.
È importante che i bambini coltivino il loro pensiero magico perché ancora incapaci, alla loro età, di individuare una spiegazione razionale a molte delle cose grandi e incomprensibili ai loro occhi, che accadono nel loro piccolo mondo.
Il pensiero magico non scompare mai completamente; resta lì, a illuderci di poterci aiutare quando accettare l’imprevedibilità del tutto richiede uno sforzo cognitivo/emotivo troppo alto. È una modalità di pensiero che ci offre l’illusione vi sia un collegamento tra eventi che tra di loro non hanno alcuna relazione di causa effetto e/o di influenza reciproca.
Ero uscita con tutte le mie migliori intenzioni e mi è caduta metaforicamente (come no) una tegola in testa? Speriamo almeno che sia il 13 del mese, meglio se martedì o venerdì, così che io non debba accettare che ogni giorno, a prescindere dalle mie intenzioni, qualcosa può sfuggire al mio controllo.
Il mostro degli adulti è il caos e la superstizione un grazioso orsetto di peluche. Il primo obiettivo della nostra mente quasi mai è la verità, ma la coerenza. La tendenza umana a ricercare ordine e coerenza quindi a stabilire nessi di causalità tra gli eventi rischia di andare oltre ciò che è scientifico, verificabile.
Ci sarebbe molto altro da dire sul pensiero magico, su quanti dei pensieri che facciamo ogni giorno afferiscano a questa modalità e su quanto, se portata all’estremo e mai verificata o contrastata, rischia di determinare e/o mantenere alcune forme di psicopatologia. È il caso, ad esempio, del gioco d’azzardo compulsivo.
Tuttavia, mi preme sottolineare che non possiamo fare a meno, talvolta, di pensare in questo modo. L’importante è che il pensiero magico quindi il vissuto emotivo corrispondente non condizioni prepotentemente la nostra vita, il nostro quotidiano.
Applicatevi a pensare razionalmente, attenendovi alla realtà, verificando le ipotesi che vi riguardano e quelle che riguardano gli altri e il mondo. Verificate sulla base delle migliori osservazioni e dei fatti più pregnanti che riuscite a trovare. Smettete di essere inguaribili ottimisti. Liquidate le speranze illusorie. Sradicate i pii desideri a buon mercato. Strappate con decisione i vostri desideri infantili. Verrà l’epoca felice? No. Ma posso almeno promettervi questo: più diverrete scientifici, razionali e realistici, meno sarete preoccupati ed emozionalmente tesi. Non lo sarete mai al grado zero — ciò sarebbe inumano e superumano. Ma lo sarete infinitamente meno. E sarete, via via che gli anni passeranno e la vostra prospettiva scientifica diverrà più solida, sempre meno nevrotici. È questa una garanzia? No, ma è una predizione che probabilmente si avvererà.
(A. Ellis, 1990)