VIVA #15
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Strappato lungo i bordi
di Tonia Peluso
Ma non ti rendi conto di quant’è bello? Che non ti porti il peso del mondo sulle spalle, che sei soltanto un filo d’erba in un prato? Non ti senti più leggero?
Sarah, Strappare lungo i bordi
Strappare lungo i bordi è uscito in una delle settimane più incasinate della mia vita. Non che io stia già provando a riportare un fatto di interesse generale alla mia esperienza personale e limitata — probabilmente cederò e lo farò a breve — cercavo solo di spiegare il motivo per il quale non l’ho guardato subito. Aspettavo la serata perfetta, che avevo immaginato del tipo: lavoro finito entro le 16:00, giro in centro, divano, plaid e pigiama di flanella. Certo non l’immagine migliore per una trentenne, ma certamente la descrizione che rispecchia il mio mood degli ultimi mesi. Ecco sto riportando la questione su di me.
Non l’ho guardato subito, dicevo, mentre intorno a me si susseguivano i complimenti e la leggerezza di Secco e la saggezza di Sarah erano diventate già citazioni condivise ovunque. «L’hai visto Zerocalcare?» «Guardati Zerocalcare» mi ha ripetuto chi mi conosce bene, Arianna su tutti. Alla fine, in una sera molto diversa da come l’avevo immaginata, ho visto Zerocalcare. Ho capito perché chi mi vuole bene ci teneva tanto lo vedessi. È stato un colpo al cuore in certi tratti. Ho riso tanto, mi sono commossa di più. Non m’ha dato fastidio per niente l’intercalare romano e mi sono chiesta se anche a Roma capissero bene il napoletano come io avevo capito Zerocalcare. L’ho chiesto su Twitter, mi han detto di no. Così è finito il mio sogno di gemellaggio dei dialetti, che per un momento mi era sembrata una gran figata.
Il punto è che non ho riso e pianto solo io, l’abbiamo fatto tutti. Perché Michele Rech, la persona dietro lo pseudonimo di Zerocalcare, ha tracciato il profilo di una generazione. La mia. Una generazione fragile, piena di se e di ma. Una generazione piena di sensi di colpa soprattutto: per non essere stata all’altezza degli standard definiti da quelle precedenti, ma senza aver avuto manco la cazzimma che è stata data in dote a quelle future.
I ventenni lo sanno che stanno lottando contro le ingiustizie sociali per affermarsi nel mondo lasciato in eredità da quelli che hanno definito boomer. Definizione pazzesca, a pensarci. Ma non è venuta in mente mica a noi trentenni, l’hanno creata i ragazzini e a volte chiamano boomer anche noi. Che poi noi boomer non lo siamo manco per niente. Il benessere economico l’abbiamo solo annusato: giusto il tempo di vedercelo negare, ma non abbastanza presto per non pensare che non sia stata in fondo anche un po’ colpa nostra. Siamo una generazione di mezzo, non compiuta. Razionalmente lo sappiamo — o almeno abbiamo imparato a saperlo — che non è colpa nostra e non dobbiamo accettare passivamente le regole di un gioco al massacro che hanno pensato dovesse anche divertirci. Lo sappiamo, sappiamo tutto. Ma siamo quelli che intanto hanno rallentato tante volte interrogandosi se fosse giusto colorare fuori i bordi della sagoma che ci era stata consegnata come percorso di vita desiderabile. Abbiamo speso tempo ed energie a fare il confronto per sottrazione tra chi stavamo diventando e chi avremmo dovuto essere. Abbiamo faticato il doppio e ci è stato riconosciuto la metà. E così spesso ce ne stiamo lì a crogiolarci nel dolore di tutto ciò che è stato incompiuto, con le mani sporche della colla con cui abbiamo cercato di ricomporre i pezzi ritagliati male. Stiamo li, nell’attesa di una voce amica che arrivi a pronunciare le uniche parole che possano tirarci fuori da quell’impasse: «Annamo a pijà un gelato?».
Ci abbiamo creduto davvero di non aver diritto di riempire tutta la nostra figura di ciò che ci pare, né di essere speciali il giusto per tagliarla senza strappi. Fino a che ci è stato rivelata, come un’epifania, la condizione in cui siamo, descritta con maestria sul finale da Zero:
Sarà pure che me guardo intorno e adesso più che fili d’erba a me me pare che siamo proprio stracci. Brandelli sottili e ciancicati uguali alle vite che se ritrovamo in mano. E semo pure stupidi perché ci impuntiamo a fa il confronto con le vite degli altri che a noi sembrano tutte perfettamente ritagliate, impilate, ordinate e magari so così perfette solo perché noi le vediamo da lontano. Invece sotto l’occhi c’abbiamo solo ‘ste cartacce senza senso, che so’ proprio distanti dalla forma che avevamo pensato. […] Io non lo so se questa è ancora ‘na battaglia oppure se ormai è annata così, che avemo scoperto che se campa pure co ste forme frastagliate, accettando che non ce faranno mai giocà nella squadra di quelli ordinati e pacificati. Però se potemo comunque strigne intorno al fuoco e ricordasse che tutti i pezzi de carta so boni per scaldasse. E certe volte quel fuoco te basta, e altre volte no.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Colorare dentro i bordi
di Arianna Capulli
Allora noi andavamo lenti, perché pensavamo che la vita funzionasse così: che bastava strappare lungo i bordi e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere.
Zerocalcare
Di Strappare lungo i bordi si è parlato molto nelle ultime settimane. Non troverete qui un’analisi del prodotto né la mia opinione personale. Quello che mi interessa evidenziare è che mi sono trovata a parlarne nella pratica clinica; questo, a parer mio, è indice di quanto il prodotto sia una forma d’arte nella quale, lo spettatore, si riconosce e/o riconosce aspetti della sua vita. Questa, sempre a parer mio, è la funzione dell’arte, in ogni sua forma.
La forma che doveva avere. Quando e come decidiamo quale forma dare al tutto? Cos’è il tutto?
Colora dentro i bordi, fai due paginette di R maiuscola corsiva finché non ti riesce perfettamente, mangia tutto anche se non ti va perché qualcuno è più sfortunato di te, fai la scelta giusta intorno ai tredici anni perché da quella scelta dipende tutto, vai avanti senza debiti, non farti prendere in giro perché altrimenti sei un debole, ma se succede non reagire altrimenti passi dalla parte del torto, dimostra di essere maturo davanti a sette/otto persone che testano la tua capacità mnemonica, poi scegli ancora, stavolta per davvero mica come cinque anni fa e non distrarti, raggiungi l’obiettivo, foto con la corona d’alloro e, finalmente, sarai arrivato/a destinazione.
Aspetta, manda un attimo indietro.
Come dici? Non si può? E come faccio allora a capire come sono arrivata/o fino a qui?
Allora riattaccata. È una manovra atta a garantire la sicurezza delle persone a bordo, per la quale i piloti d’aereo sono preparati e che si decide di attuare quando qualcosa in pista potrebbe provocare disastri qualora l’aereo toccasse la pista. Una manovra che inevitabilmente spaventa i passeggeri che, pronti a tirare un sospiro di sollievo, sono invece costretti a trattenere di nuovo il fiato e a rimandare quel momento in cui potranno dire: “siamo finalmente arrivati”.
Negli ultimi anni, nell’ambito della psicologia e della psicoterapia, si è parlato molto di perfezionismo clinico. Shafran et al. l’hanno definito come “un’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dal raggiungimento di standard personali esigenti e autoimposti in almeno un dominio altamente saliente nonostante le conseguenze avverse”. Parafrasando: se vuoi essere felice devi fare così. E se devi fare così significa che non puoi fare altrimenti.
C’è un problema però, che Andre Agassi, in Open, ci racconta molto bene:
Ho la sensazione di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto — vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente.
Il tennis è la metafora di vita che preferisco: si vince uno alla volta. Anche se stai giocando il match migliore della tua carriera da tennista, esiste l’eventualità che quel match tu lo perda, soprattutto se anche il tuo avversario sta giocando, mosso dalla stessa tua determinazione, il miglior match della sua vita.
La disfunzionalità del perfezionismo non è dovuta alla salutare ricerca di eccellere, ma a lasciare che la valutazione di sé dipenda dagli standard raggiunti. Ho giocato la miglior partita della mia vita, ma il trofeo lo porta a casa un altro quindi non valgo niente né come tennista, né come persona, soprattutto se l’essere un bravo tennista è la sola cosa che mi definisce.
Sul tennis come metafora di vita prima o poi scriverò un libro, ma torniamo al perfezionismo clinico; la ricerca è ancora allo stadio iniziale; quello che sappiamo è che la tendenza al perfezionismo patologico può causare sofferenza psicologica; diventa per noi un modello generalizzato, che determina le nostre emozioni e guida i nostri comportamenti e che, in alcuni casi, contribuisce allo sviluppo e al mantenimento di alcune forme di psicopatologia.
In un articolo pubblicato su Psychology Today, lo psichiatra David Burns (1980) definisce perfezionisti “coloro i cui standard di comportamento risultano irragionevoli e bel al di sopra delle loro possibilità” e “che si affannano incessantemente e in modo ossessivo per conseguire degli obiettivi impossibili; individui portati a misurare i propri meriti esclusivamente in termini di produttività e di risultati raggiunti”. In alcuni casi, aggiunge Burns, il desiderio di perfezione può arrivare a pregiudicare le prestazioni di una persona.
Sebbene avere degli standard di comportamento elevati possa rivelarsi talvolta utile, il perfezionismo patologico implica delle aspettative irrealistiche, che rischiano di compromettere il rendimento individuale. Il perfezionismo costituisce un problema quando conduce all’infelicità o non consente di vivere una vita normale. Standard di comportamento elevati possono influenzare la salute, il modo di mangiare, i rapporti affettivi e gli interessi personali.
Sembrerebbe che allo sviluppo di tratti di personalità orientati al perfezionismo contribuiscano sia fattori di tipo psicologico (apprendimento) sia biologico (genetica). (Tozzi et al., 2004)
La società contemporanea è concime per il perfezionismo. Pur di non accettare che la pelle perfetta e il corpo perfetto non esistono, abbiamo inventato i filtri. Avevamo già la chirurgia estetica, ma a quella almeno riconosciamo gli alti costi che ha, che fungono da deterrente nella gran parte dei casi. I reality show, i social network, la possibilità di condividere ogni momento della nostra vita; tutto questo ci viene venduto come un modo per evidenziare la realtà dei fatti, ma siamo sicuri sia proprio così?
In una riflessione illuminante, Luigi Zoja, sociologo e psicoanalista, evidenzia come, nel passaggio dal dipinto alla fotografia ci si è illusi la fotografia potesse essere un fermo immagine della realtà così come questa si presentava. In realtà, la manipolazione è sempre esistita, anche nelle foto. Fin dai tempi della Guerra di secessione: per scattare erano necessari lunghi tempi di esposizione e questo faceva sì che le scene fossero ricreate, spostando soldati e cadaveri.
Numerose ricerche hanno messo in luce il ruolo di alcuni fattori di rischio ambientali nello sviluppo del perfezionismo: aver avuto genitori eccessivamente critici e/o molto esigenti; aver subito critiche in ambito scolastico o essere in relazione con persone che non fanno mai commenti positivi; esser stati poco premiati, ricompensati o aver legato l’affetto all’elogio; aver appreso il modello del perfezionismo da altri significativi; l’aver ricevuto rinforzi per la prestazione quindi non solo l’aver pensato che siccome ho perso il match non sono un bravo tennista, ma, se l’ho vinto, aver pensato che sono il migliore e non mi dovrà capitare, da lì in poi, di perderne uno.
Le persone che sono state punite eccessivamente anche per errori di lieve entità possono sviluppare la rigida convinzione sia assolutamente importante non commettere mai errori. Non commettere errori significa, per molti, fare le cose perfettamente, ma non commettere errori non è possibile né, il più delle volte, prevedibile, quindi forse non è neanche possibile fare le cose perfettamente o quantomeno non basta volerlo, non basta impegnarsi. Crederlo e poi rendersi conto che il risultato atteso non l’abbiamo raggiunto può avere costi molto alti.
Proprio da questi costi alti dipendono i meccanismi di mantenimento di un atteggiamento di questo tipo come l’evitamento dell’esposizione (“se non ho la certezza di prendere trenta e lode non mi presento all’esame”), la procrastinazione (“lo farò solo quando sarò preparato adeguatamente”) e una serie di comportamenti controproducenti (“per avere la certezza di prendere 30 dovrò studiare tutto il giorno, almeno otto ore al giorno” — questo c’è il rischio mi porti a una stanchezza che non mi consentirà di apprendere come vorrei).
Cosa fare se ci accorgiamo di avere standard di comportamento elevati che limitano i nostri comportamenti e causano sofferenza psicologica? Possiamo chiedere aiuto a un professionista della salute mentale, per capire in che modo si declina il nostro perfezionismo e provare a valutare una serie di alternative che, se e quando saranno acquisite, ci condurranno a prendere quel foglio dove è disegnata la mostra figura intera, che aspettiamo di strappare lungo i bordi, e a gettarlo nel camino, così che a scaldarci sia l’idea di essere umani, quindi limitati, quindi imperfetti. Tutti, nessuno escluso.