VIVA #17
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Vi ricordiamo che Fantastico! è anche una rivista cartacea, e il nuovo numero lo trovate QUI.
Marta
di Tonia Peluso
Premessa
Questo racconto non ha in alcun modo la pretesa di affrontare il tema della salute mentale in maniera approssimativa, né di proporre soluzioni semplicistiche. La fede lenisce, i professionisti curano. Ci tengo a tener distinti i livelli. In alcuni punti sembrerà anacronistico e in effetti lo è. Siamo del resto nell’Italia di metà ‘900, Un Paese in cui i manicomi erano una realtà fino al 13 maggio 1978, quando il Parlamento italiano ne ordinò la chiusura con la Legge Basaglia, ridando la dignità e il diritto di cittadinanza a tante persone e creando una tutela per i pazienti psichiatrici.
Oggi voglio solo raccontarvi una storia che non avevo mai pensato di raccontare fino a oggi.
Questa è la storia di Marta.
Marta nasce in una famiglia di contadini che sbarca il lunario coltivando la terra con semplicità. È il 1942 tutto intorno c’è la guerra anche se lei, che è nata nel bel mezzo, la guerra non l’ha mai vista. Nelle campagne si respira la stessa aria di prima, l’unica che Marta conosce. Poi un giorno arrivano gli alleati: sono diversi, urlano parole incomprensibili, gira voce che “rubano i bambini e li mangiano”. Marta conosce la paura. Ha sempre paura. Ha tre anni, sua sorella cinque. Sono sole, i genitori lavorano la terra. I soldati bussano alla porta di casa. Hanno paura, iniziano a lanciare sassi dal tetto. I soldati vanno via. Non hanno mai saputo cosa volessero, ma nelle loro menti torna la paura dei bambini mangiati dagli estranei.
Marta ha 16 anni lavora come bambinaia in città a servizio di una famiglia abbiente. Torna a casa solo nel week-end. Un giorno un parente va a prenderla a metà settimana. «Devi tornare in paese, Ferdinando chiede di te» le dicono. Torna a casa, ma non in tempo. Suo nipote di cinque anni è morto, mentre chiedeva di riabbracciare la zia. «Cos’è successo?» chiede. «Ha mangiato cinque gelati» le dicono. E questa spiegazione deve farsela bastare.
Marta ha 21 anni. Conosce Ciro, si innamora. Qualcuno le dice che per lei è vecchio perché di anni ne ha 34. Però è bello, è protettivo, le dà sicurezza. È contadino anche lui, ma vive alle porte della città. È elegante, curato. Marta non ha dubbi: è la risposta che stava aspettando. Solo un anno e lo sposa. Di quel giorno non ha neanche una foto e questo è un rimpianto grande, però Ciro le regala una coperta bellissima. È felice. Non c’è più la guerra, non c’è ancora dolore. C’è sempre la terra da lavorare, ma è una fatica di cui sono visibili i risultati. La terra è il loro elemento, una passione condivisa. La mattina escono prima dell’alba e il sole li trova stretti nell’Ape Car della Piaggio, spesso guida Marta, ha imparato come si fa. Stanno bene.
Nasce la prima figlia. La chiamano Maria, come la mamma di Ciro e la sorella di Marta. Sono felici. Però Marta è stanca. A volte non ha voglia di alzarsi dal letto, né di pettinarsi. «Nennè fatti o tupp» le dice Ciro, invitandola a raccogliersi i capelli in una cipolla come sempre, come le piace. Ma i suoi capelli nerissimi e lunghi restano sciolti. Ci sono giorni in cui va lo stesso nella terra, che ormai non sa di niente. Piano piano la normalità torna. La vita riprende. Due anni dopo nasce una nuova bambina. La chiamano Maddalena, come la mamma di Marta. Ricomincia la stanchezza, la vita che non ha senso, la bellezza che non è più bellezza, gli alberi di limone che non profumano più di niente, le fave che possono anche marcire nel terreno. Ricomincia il giro degli ospedali, degli specialisti che dicono che è pazza. Come è possibile? Come può essere pazza se poi torna a stare bene? E infatti la vita riprende un’altra volta. Marta è di nuovo incinta, la terza femmina. Non arriva il figlio maschio. Si convince che fossero maschi i due bambini che ha perso in grembo. Marta è di nuovo felice e poi assente. Dicono sia pazza, un’altra volta. Ma questa volta i medici ne sono sicuri: «Bisogna ricoverarla» dicono. «È per il suo bene», aggiungono. «Dobbiamo curarla». Ma la cura è lasciarla sola, inerme, tutto il giorno, con i capelli lunghi e nerissimi sciolti, senza Ciro a ricordarle di farsi il tuppo. Quando si agita c’è la camicia di forza. Quando si lascia troppo andare ci sono gli elettroshock. Però succede una cosa strana. La pancia cresce. È incinta. «Quando è successo? È arrivata sicuramente qui già incinta. Deve abortire». Marta non vuole. Nessuno la costringe a tenerlo, non sarebbe possibile imporle qualcosa neanche mentre non ha la forza di farsi il tuppo. Solo non vuole. Ne ha già persi due di figli, lei questo bambino lo vuole. E poi vuole tornare a casa. Le manca la sua casa grande, le mancano le bambine, le manca il marito e soprattutto vuole rivedere la terra. Per qualche mese sta meglio. È il 31 agosto del 1970 quando nasce Ester, ancora una femmina. Passano pochi mesi, il mondo intorno si spegne di nuovo. Ciro lavora la terra, Marta è a casa con le bambine. Una sera Ciro torna, Marta non c’è. Ha dato di matto, blaterava cose strane, i vicini l’hanno portata in ospedale. Tutto sembra perdere di nuovo senso, ma questa volta bisogna fare qualcosa di diverso. Ciro non sa come fare, chiede aiuto alla cognata. «Voglio portare Marta a Milano, mi hanno detto che c’è una clinica». La sorella di Marta si attiva, va a Napoli, prende la madre, le nipoti, Marta, le carica nella Cinquecento, nel bagaglio poche valigie, al petto un bambino da allattare. È il viaggio della speranza, in nove in poco spazio. Per Ciro non c’è posto. «Andate voi, poi vi raggiungo. Devo sistemare delle cose» così li congeda. A Milano le cure costano, ma sono soldi benedetti che tengono Marta lontana dagli elettroshock. Ciro va a trovare lei e le bambine ogni week-end. Napoli-Milano, in treno, nel ‘71. I risparmi finiscono. Ciro vende tutto. «Di cosa hanno bisogno le bambine? Non vi preoccupate il lavoro va bene». Il lavoro va bene, non mente, va bene davvero. Però non c’è più la casa in città, né quella in campagna. Non ci sono più le terre, le attrezzatture. Non c’è più niente. Ci sono sua moglie e le sue quattro bambine. «Cosa vi serve?» chiede ogni sabato. Marta ha dei giorni di permesso, sta dalla sorella. Le figlie e i nipoti giocano, corrono, urlano. «Abbassate la voce», nessuno la ascolta. La sua autorità è minata dal troppo tempo trascorso a farsi accudire. Il volume della televisione è troppo alto. «Abbassate la voce la butto giù questa televisione», intima. Ancora nessuno l’ascolta. Il rumore diventa insopportabile. Le ricorda scene lontane nel tempo. Chissà quali, chissà cosa. Marta si alza, afferra la televisione e si avvicina alla finestra. La lascia cadere, come i sassi che lei e Maria lanciavano ai soldati. «Dov’è mio marito? Voglio tornare a casa, ce ne andiamo a casa». Tornano a Napoli, bisogna ricominciare. Ci provano, ma Marta sta ancora male. Va in una clinica privata, inizia a stare bene però non le credono. Un giorno Ciro va a trovarla. «Voglio un gelato. Me lo vai a comprare un gelato?» chiede al marito, allontanandolo per qualche minuto. Quando torna in camera Marta non c’è più. Si allarma, si agita, si tocca. «Le chiavi, mi ha preso le chiavi», capisce subito. La conosce bene. Marta abbracciandolo gli ha sfilato le chiavi dell’Ape dalla tasca della giacca. Corre al parcheggio, come immaginava manca l’Ape. Si infila in un bus, torna a casa ma Marta non c’è. Sa dove cercarla. Va nella loro chiesa. La moglie è lì. Ringrazia Dio perché si sente bene, finalmente. Questa volta è pronta davvero a ricominciare. Lo giura al marito, lo giura a sé stessa. Lo giura al loro Dio.
Ricominciano. Certo non nelle migliori condizioni: una famiglia di contadini, con quattro figlie femmine e senza più nessun bene di proprietà. Ma Marta e Ciro non si fanno troppe domande: se i figli maschi non sono arrivati nella terra ci vengono le femmine. È sopravvivenza. Per qualche anno va così. E va bene. Ricomprano casa, il lavoro ingrana. Poi arriva la prova più grande. Marta è di nuovo incinta: gravidanza gemellare. È il secondo giorno di primavera, Marta deve partorire, per la prima volta non a casa. Tutti sono certi siano altre due femmine, perché Marta dice che lei i maschi li perde. Ciro compra due scialli rosa e corre in ospedale. Sono due maschi, li avvolgono negli scialli rosa. Non c’è spazio per i simbolismi. La gioia è tanta. Non sanno come chiamarli. Ciro decide Biagio, come il suo primo fratello, e Giacobbe perché gli piace. A Marta Giacobbe però non piace, il giorno dopo lo manda ad aggiungere un secondo nome, quello di suo padre Giuseppe. Tornano a casa e il mondo non si spegne, la terra non perde il suo profumo. Sono felici, questa volta davvero. Qualche volta Marta è stanca, chi non lo sarebbe con sei figli e una terra da coltivare. La fatica la spettina. «Nennè fatti bene stu tupp» le ricorda Ciro. Quei capelli nerissimi e lunghi sono il metro attraverso il quale si misura la loro serenità, sono la paura di rivedere il mondo fermarsi. Invece non si ferma. Passano tanti anni, gioie e dolori si alternano come in ogni famiglia, ma la vita continua a scorrere e gli alberi di limone profumano sempre più rispetto all’anno precedente. Maria, la prima figlia, si sposa. Vuole un figlio, Marta e Ciro diventeranno nonni. Una nuova fase di vita si apre. Ma aspettate un attimo, non è ancora il momento, c’è tempo per invecchiare, ho tanti anni da recuperare sembra dire Marta. È incinta di nuovo. Però ora le ecografie sono più diffuse: è una femmina, per chiudere il cerchio. Nasce Elisabetta, il bastone della vecchiaia, come dice Ciro. Nello stesso anno la piccola diventa zia, Marta e Ciro sono nonni.
Questa storia la conosco bene. Marta è mia nonna.
Ester è mia mamma. Spesso toccandola prendo la scossa e lei dice che sono gli elettroshock che ha avuto mentre era in grembo.
È una storia che ho sentito, risentito, dai miei nonni, dagli amici di famiglia, dalla gente qui in città. I miei nonni sono nati contadini e poi sono stati venditori al mercato. Li conoscevano tutti. Io se ci penso me li ricordo alla guida dell’Ape oppure anziani, mentre escono da chiesa sottobraccio. Nonna Marta a volte stanca, nonno Ciro sempre attento che le ricorda di farsi bene il tuppo, anche se il mostro della depressione è un ricordo lontano nel tempo. Sono stati insieme una vita tra gioie e dolori. «L’anno prossimo facevamo 60 anni di matrimonio» ha detto nonna Marta il giorno del funerale del marito nel 2017. Da allora ogni tanto si ferma. Dice che è la solitudine, dice che nonno Ciro le manca. Però torna sempre a camminare. E non ha perso il vizio di rubare le chiavi. L’ultima volta erano quelle di una Minicar, di quelle che guidano gli adolescenti. Nonno Ciro era in ospedale, i figli volevano risparmiale lo strazio di vederlo. Lei ha finto di andare a dormire per sfuggirne al controllo ed è andata a salutarlo. Per l’ultima volta. Da qualche tempo ha smesso di guidare ma un paio di settimane fa mi ha chiesto un regalo: «Mi ritrovi la patente? La voglio conservare». Abbiamo cercato ovunque fino a che l’ha riavuta.
Nonna Marta ha compiuto 80 anni il 6 gennaio. Voleva festeggiare “al ristorante come abbiamo fatto per il nonno” però poi il Covid e i figli in giro per l’Italia l’avevano fatta quasi desistere. Siamo andati a sorpresa al ristorante, ne eravamo in dodici su cinquantuno. Ha detto che non aveva mai visto ristorante così bello. Non è vero, ne ha visti con certezza. Le ho regalato un vestito perché ne voleva uno “come me li metto io, da ragazza” e ha voluto provarselo nel bagno. È stato un giorno felice. Più tardi su Zoom, ha ritrovato tutti. Ha detto che in estate si festeggia di nuovo. E che dobbiamo farli più spesso questi televideo.
«Oggi è stato un giorno bellissimo, vi ringrazio tutti. Se il nonno stava qua era felice pure lui, sicuro. Però mo lui sta ancora più felice perché sta col Signore» ha detto.
Poco dopo mi ha aperto l’armadio per cercare un cappotto che le stesse bene sul vestito nuovo.
Non sappiamo di cosa abbia sofferto da giovane nonna Marta. Depressione post-parto hanno ipotizzato qualche anno fa i medici, sentendo i racconti di quegli anni in cui era stata chiamata solo pazza.
«Lo sai che mi ha detto il medico? Che io sono troppo sensibile, no sensibile… comm s rice che mi commuovo subito?» «Emotiva» «Brav. Sono emotiva ha detto il medico. Mi prendo i guai di tutti quanti. Quando mi metto nel letto io penso, penso. Ho detto dottò tenit ragione, io sono emotiva. Però ha detto che sto bene con la testa, capisco. Non sono pazza. Ha detto proprio che non sono pazza» mi ripete di tanto in tanto.
Non è pazza. Non lo è mai stata.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Postfazione
di Arianna Capulli
Quando abbiamo deciso di scrivere per VIVA, questa rubrica, ci siamo dette, con Tonia, che ci saremmo ispirate a quello che succede quando siamo al bar a fare le amiche e ogni esperienza di vita si interseca con i temi che abbiamo a cuore, alcuni dei quali coincidono con le competenze che abbiamo acquisito nei nostri rispettivi percorsi formativi.
Ho conosciuto Ester una calda sera di luglio. Mi lamentavo di non essere a casa mia, di non avere mio marito vicino.
“Nennè qui non tieni tempo per la nostalgia, forz piglia i piatti, apparecchiamm”.
Non so se siano stati gli elettroshock subìti da Marta, né se la scossa della quale scrive Tonia sia la stessa che ho preso io, una calda sera di luglio, di un anno in cui, talvolta, la nostalgia di casa mi agitava molto e mi faceva sentire, in qualche modo, pazza. Sì, proprio io, psicologa di professione (e proprio per questo), in terapia da anni (e proprio per questo), pensavo di non potermi concedere di sentire la nostalgia di casa, durante la prima estate in sgradita compagnia del virus.
La diagnosi a posteriori, dopo anni, non è una diagnosi, ma il mero tentativo di restituire una spiegazione su quanto accaduto; si può fare un’ipotesi, ma non è possibile avere una certezza né si può tornare indietro per intervenire prima che la persona soffra.
Quello che con certezza si può dire è che, se le istituzioni avessero la stessa attenzione che Ciro e la famiglia di Marta hanno avuto per i suoi capelli insolitamente sciolti, forse, la salute sarebbe davvero quello che si propone di essere: uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia (OMS - Organizzazione Mondiale della Sanità).
Benché la definizione di Depressione Post-Partum (DPP) sia oggi di uso comune, non è individuabile uno specifico inquadramento nosografico. Sia per il DSM-5 che per l’ICD-10, i criteri diagnostici sono gli stessi previsti per il disturbo depressivo.
La gravidanza, nella nostra società, è considerata un evento lieto, gioioso. Ne consegue che eventuali vissuti negativi o depressivi a esso collegati, sperimentati dalle neo-mamme e/o dai neo-papà, sono troppo spesso considerati una forma di ingratitudine, quasi una colpa, sicuramente non adatti né coerenti con quanto accaduto.
Epitteto, molti anni prima di tutto, ci aveva avvisati: non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti.
La famiglia di Marta questo l’aveva capito. Lei non era pazza, era sofferente, anche se apparentemente non avrebbe avuto motivo di esserlo.
Tanti passi in avanti sono stati fatti, abbiamo una vasta letteratura a supporto del nostro lavoro di professionisti della salute mentale, possediamo gli strumenti per provare a prevenire alcune forme di disagio psicologico, inclusa la Depressione Post-Partum.
Allora, a livello istituzionale, cosa non funziona? Perché non possiamo ancora garantire, a chi ne ha bisogno, prevenzione, sostegno, supporto, trattamento di un disturbo?
Ne ho parlato con Arianna Galati in un intervista per marie claire:
https://www.marieclaire.it/attualita/news-appuntamenti/a38672940/psicologo-di-base-come-funziona/