VIVA #19
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email. Per rimettere in ordine le tempistiche di uscita, ci leggeremo anche la settimana prossima.
Per il momento, buona domenica.
INVENTING ANNA
Empatizzare, comprendere, giustificare
Inventing Anna è una produzione Netflix/Shondaland e racconta la storia di Anna Sorokin, conosciuta dall’élite newyorkese come Anna Delvy, e dei crimini finanziari da lei commessi. La storia trae ispirazione dall’articolo del New York Magazine del 2018 “Maybe She Had So Much Money She Just Lost Track of It: How an Aspiring ‘It’ Girl Tricked New York’s Party People — and its Banks” (Forse aveva così tanti soldi che ne ha perso il conto: come un’aspirante It Girl ha ingannato i festaioli di New York — e le sue banche) firmato dalla giornalista Jessica Pressler.
Classe 1991, Anna Sorokin nasce in Russia e si trasferisce con la sua famiglia in Germania all’età di 16 anni. Vive a Londra per motivi di studio e a Parigi, dove lavora per la rivista di moda Purple. Proprio a Parigi inizierà a farsi chiamare Anna Delvy. Nel 2013 viaggia verso New York e lì decide di rimanere, iniziando a coltivare il sogno di una fondazione artistica a suo nome. Sarà proprio questo sogno a spingerla a commettere il reato di richiesta fraudolenta di un prestito in denaro alla City National Bank, solo uno dei capi d’imputazione per i quali verrà giudicata colpevole da una sentenza emessa nel 2017, nell’ambito di un processo durante il quale Anna sembrerebbe non aver mostrato il minimo segno di pentimento. In un’intervista dirà che non era dispiaciuta, ma che si pentiva “del modo in cui aveva fatto certe cose”.
Un passaggio fondamentale del racconto è quello che coinvolge la giornalista Rachel Williams, autrice del libro “My friend Anna”. Una puntata della serie è dedicata al viaggio in Marocco di Anna e Rachel. Tra le truffe reiterate da Anna quelle agli hotel, ai quali forniva, oltre alle false generalità, le coordinate di un finto conto in Svizzera a garanzia. Nel corso di questo viaggio qualcosa va storto e Rachel, in teoria ospite di Anna, si ritroverà a dover saldare il soggiorno di lusso, un conto da più di 60.000 dollari che la giornalista si troverà costretta a saldare con la carta aziendale, venendo poi licenziata.
Negli ultimi giorni, l’ex reporter di Vanity Fair, ha rilasciato diverse interviste, ricevendo solidarietà. La serie, secondo la Williams, “esalta una criminale, a discapito dell’aderenza con la realtà”. E ancora: “Mi sono sentita molto a disagio. Gli sceneggiatori non sono stati affatto corretti nei miei confronti”, ha sottolineato, “Hanno trattato la mia storia così come hanno maneggiato i fatti di cronaca: manipolando tutto senza alcuna attendibilità”. In un episodio della serie, al momento del controinterrogatorio dell’avvocato della Sorokin, la Williams viene infatti descritta come una fan ossessionata, che ha tratto più di un beneficio dall’amicizia con Anna, inclusa la possibilità di pubblicare il libro nel quale racconta i fatti secondo il suo punto di vista. “L’impatto di quel rapporto sulla mia vita e sul mio benessere psico-fisico è stato devastante. Mi fidavo ciecamente di lei e mi ha pugnalato alle spalle», ha ribadito, “Quella farsa mi ha davvero mandato in crisi. Stavo affogando nei rimpianti ed è stato anche per questo che ho deciso di sfogarmi scrivendo una monografia, per analizzare a mente fredda quanto mi fosse successo. Ho fatto un passo indietro, ho guardato tutti quei ricordi da lontano e, si spera, presto non ne avrò più memoria. Sarò finalmente libera”.
Se trai il minimo vantaggio da qualcosa (come Rachel dall’amicizia con Anna), meriti tutto quanto di negativo ti accadrà. Un pensiero più che comune al giorno d’oggi. Il prodromo cognitivo del — Te la sei cercata — la distorsione cognitiva alla base del victim blaming.
Sondando alcuni vissuti comuni a chi ha guadato la serie, emergono emozioni quali fastidio, delusione e rabbia per come apparirebbe chiaro il tentativo di convincere lo spettatore a empatizzare con la protagonista. È come se, in alcuni punti della narrazione, l’obiettivo fosse quello di trascinare lo spettatore a diventare egli stesso vittima della manipolazione affettiva, spingendolo a vivere un conflitto emotivo che nasce dalla necessità di comprendere il motivo di quel comportamento (come hanno fatto molte delle persone direttamente coinvolte), ricercando le ragioni che l’hanno spinta a truffare e intravedendo, nell’espediente narrativo (riportato fedelmente) del sogno da lei coltivato di creare qualcosa di bello, una simil giustificazione.
Quindi ci arrabbiamo con la giornalista che va a trovare Anna in tribunale per scrivere l’articolo grazie al quale si parlerà di questa vicenda, ignorando che potrebbe essere scivolata, lei per prima, nella manipolazione di una ragazza che, da quello che si vede, la insulta e rifiuta ogni gesto di affetto, tenendola, in questo modo, ancorata a lei. Chi è qui la vittima? Verso chi e cosa dobbiamo indirizzare la nostra rabbia? Una triplice manipolazione carpiata: la giovane ragazza accecata dal bisogno di qualche like in più che manipola persone altrettanto accecate dal desiderio di vivere nello sfarzo e nel lusso, protagonista di una storia raccontata a uno spettatore costantemente accecato dal desiderio di schierarsi da una parte o dall’altra. E se il peccato originale fosse imputabile a qualcosa di esterno alle singole persone coinvolte? E se fosse proprio l’interesse personale a prevalere, in ogni caso, in una società che incita a spiccare a qualunque costo?
E se attenersi ai fatti, senza necessariamente schierarsi solo da una parte o solo dell’altra, fosse quanto di più difficile ci si possa chiedere e se quindi rappresentasse un successo l’esserci riusciti? E se empatizzare con Anna e con Rachel allo stesso tempo denotasse l’abilità di coltivare il proprio pensiero critico, uscendo dalla grande aula di tribunale che è la nostra mente?
In psicoterapia cognitivo-comportamentale, gli interventi per la gestione della rabbia sono volti a promuovere l’abilità di guardare i fatti dal punto di vista dell’altro. Tale intervento, denominato Perspective taking, è il processo cognitivo coinvolto nell’esercizio dell’empatia. La capacità di mettersi dal punto di vista dell’altro sembrerebbe essere associata a una minore espressione della rabbia sul piano comportamentale, a una minore tendenza a reprimere i vissuti di rabbia e, soprattutto, a una maggiore capacità di costruire risposte più adattive.
Comprendere per empatizzare, che non significa necessariamente giustificare.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
(Trovi questo articolo anche su medium)
Siamo nel 2022, mica nel Medioevo
Di tanto in tanto faccio un esercizio: provo a mettere a fuoco gli argomenti che negli ultimi tempi ho più trattato. Faccio uno sforzo di memoria, rileggo qualche tweet, ripercorro a grandi linee gli ultimi articoli. Non li leggo per intero perché troverei dei difetti e mi verrebbe voglia di rimetterci mano. Mi limito a guardare il tema trattato, che poi è ciò che mi interessa. L’ho fatto anche con Viva. Sono andata a buttare un occhio tra le bozze che, per la loro naturale incompiutezza, non possono indurmi nella tentazione di dichiararmi incapace di intendere e scrivere. Vedi a volte il problem solving. Dalle bozze è emerso un dato: faccio spesso riferimento alle donne. Storie di donne, strumenti per la tutela delle donne, riflessioni su quanto sia necessario un discorso pubblico capace di valorizzare le donne, senza l’ipocrisia attraverso la quale spesso è posta l’attenzione su una donna, una qualsiasi donna. Mi ci ritrovo. Parlo tanto delle donne e parlo con le donne. Forse in parte condizionata dai progetti che sto portando avanti nell’ultimo periodo, forse per inclinazione naturale. Non saprei dare ora una risposta, so però che questa è la domanda che non mi farà dormire una notte a caso nei prossimi giorni. Mi conosco.
Per questo numero ero partita con l’intento di fare alcune riflessioni su una triste vicenda di cui si è molto parlato in questa settimana. In estrema sintesi, visto che al riguardo già è stato detto tanto e più di tanto, una giovane studentessa del liceo scientifico “Augusto Righi” di Roma durante il cambio d’ora decide di girare un video da pubblicare su TikTok, perciò si alza la maglietta. La professoressa entra in aula e, scandalizzata dai troppi centimetri di pelle scoperta, le chiede se pensa di trovarsi per caso sulla Salaria. Non in spiaggia, sulla Salaria proprio. In pratica le dà della mignotta o meglio della meretrice, come mi è stato intimato di dire su Twitter perché mignotta è offensivo per le lavoratrici sessuali. Sì, l’hanno scritto davvero. Una notizia che apre a uno scenario desolante: da un lato una ragazza giovane a cui, al massimo, manca il senso di appropriatezza rispetto al luogo in cui si trova, dall’altro un’insegnante inadatta a svolgere il ruolo educativo. Non si può stare qui a discutere di etichette comportamentali e di vestiario se siamo dinanzi ad adulti significativi incapaci di svolgere il proprio ruolo trasmettendo valori positivi — e rimproveri laddove ce ne fosse bisogno — senza rendersi autori di tali oscenità. Volevo soffermarmi su un paio di punti, dicevo sopra, quando mi sono resa conto che avrei parlato ancora una volta di donne. Poi ho realizzato che siamo a febbraio e c’è una cosa successa nel febbraio del ’91 che è per me importantissima. Anche se sarei nata pochi mesi dopo.
Ho trent’anni, saranno trentuno tra qualche mese, parlare di donne e alle donne a me sembra un fatto naturale. Non di certo un privilegio, non un qualcosa che possa avere il gusto di una conquista. Perché mai non dovrebbe essere così? Mi ritrovo a pensare. Siamo nel 2022, mica nel Medioevo. La mia mente viaggia in un tempo fatto di donne. Ne vedo alcune.
È mattina, sembra un giorno di festa, la gente indossa il vestito elegante mentre si avvia verso i seggi elettorali. Tra tanti mi colpisce una giovane donna, avrà più o meno trentun anni, come me, anche se io ne ho ancora trenta se ricordate. È trepidante, felice d’aver ottenuto i suoi diritti di cittadina, orgogliosa nel fare il suo dovere da cittadina. Sta andando a votare, per la prima volta. Il voto non è più un privilegio degli uomini. Siamo nel 1946, mica nel Medioevo.
Continuo a camminare, mi imbatto in un gruppo di donne. Sfilano e festeggiano come prigioniere scappate dalle mani del tiranno. Il Natale alle porte ha portato in dono una legge di liberazione, la Legge sul Divorzio. Il mio sguardo si ferma su una di loro, ha le spalle dritte e lo sguardo stanco. Avrà più o meno trent’anni, forse trentuno. Tiene per mano una bambina, credo sia lì per consegnarle un mondo migliore. Siamo nel 1970, mica nel Medioevo.
Giro la strada, scopro un altro corteo. Dopo anni di aspre battaglie sociali e politiche l’aborto è stato depenalizzato, grazie alla legge 194 del 22 maggio che riconosce alle donne il diritto di interrompere volontariamente la gravidanza. Una donna china sotto il suo dolore le guarda da lontano. Ripensa a sua figlia a cui è toccata una sorte infame: è morta pochi mesi prima, a causa di un aborto clandestino. Un tempo troppo vicino per accettare che abbia pagato un diritto con la sua stessa vita. Aveva trent’anni, come me, ma lei li avrà per sempre. Io no. Siamo nel 1978, mica nel Medioevo.
Scossa mi rimetto in cammino. Incontro delle donne, sorridono e una di loro immortala quella gioia in una foto. Chiedo dove sono. Mi dicono a Bologna in via Capramozza. È appena nata la prima Casa Rifugio per donne vittime di violenza. Capisco perché quelle donne sorridono: sono alcune delle socie della Casa delle Donne e hanno raggiunto un traguardo importante, impensabile fino a pochi anni prima. Eppure, siamo nel 1991, mica nel Medioevo.

Chissà se tra le socie qualcuna abbia trent’anni, come me, o trentuno come me tra qualche mese. Che poi non so davvero quanti anni abbiano le donne che ho incontrato. Ma ho supposto che a celebrare i traguardi e a pagare il prezzo per i diritti negati, appena nel secolo scorso, ci fosse qualche donna di trenta, quasi trentun anni. Forse per sentirla più vicina o per ricordarmi che a essere nata a fine secolo è stata una bella fortuna. Che poi manco oggi qui è una pacchia. Eppure, siamo nel 2022, mica nel Medioevo.
Sono nata il 3 aprile 1991, appena due mesi dopo la nascita della prima Casa Rifugio. Abbiamo la stessa età per davvero. Entrambe nasciamo dall’amore. Io da quello di due persone che hanno deciso di trascorrere insieme gli anni a venire; lei da quello di alcune volontarie che capiscono quanto sia necessario un atto di coraggio per dare accoglienza a chi d’amore ha conosciuto solo quello malato.
Il primo passo per la nascita della Casa Rifugio di via Capramozza si ha un anno prima, con la nascita della Casa delle donne. Sono anni complicati, in cui le conquiste arrivate nei decenni di battaglie femministe sembrano essere ancora troppo poco per poter considerare la vita delle donne dignitosa. Ad accendere nuovamente gli animi sono tre casi di stupro, mesi di maggio e giugno 1985, contro tre ragazze minorenni. Il “Centro di documentazione delle donne” è palco di diversi dibattiti sulla violenza contro le donne, i quali evidenziano una realtà drammatica: non vi sono in città strutture in cui una donna può rifugiarsi se subisce una qualsiasi forma di violenza. L’intervento in difesa delle donne è fermo alla loro libera associazione, che pone le basi nei movimenti femministi degli anni Sessanta e Settanta. Le donne cercano spazi di libertà, autonomia ed espressione nei collettivi, nelle associazioni, nell’UDI (Unione Donne Italiane). Vogliono uscire dalle prescrizioni sedimentate nelle relazioni tra uomini e donne, ma il discorso è ancora incentrato su un piano teorico: si mettevano in discussione i ruoli tradizionali e le aspettative legate alle differenze di genere. Come ben spiega Francesca Sartori:
Durante tutto il secolo scorso le donne hanno lottato per conquistare i diritti civili, politici e sociali, per modificare la condizione che le vedeva come un “accessorio” del capofamiglia, senza diritti di tutela sui figli legittimi, impossibilitate a gestire i guadagni derivati dal proprio lavoro; per non parlare dell’impedimento all’accesso ai pubblici uffici e a molte professioni e ad esercitare il diritto al voto.
Il mio viaggio nel tempo fatto di donne è stato un viaggio tra leggi, tutele, concessioni — e già l’uso di questi termini dovrebbe rendere chiaro quanto profondo sia stato il divario di genere — che sanciscono appena pochi decenni fa il diritto delle donne di essere persone in grado di autodeterminarsi. Pietre su cui milioni di donne possono costruire le basi di un futuro migliore, o almeno meno spietato. Il cammino da fare resta comunque lungo e tortuoso, ancora oggi infatti non si è aggiunta la totale parità di genere poiché “è un cammino non lineare e intralciato da numerosi ostacoli e resistenze, che rendono spesso precari i risultati raggiunti, rimettendo in discussione principi ritenuti ormai scontati e consolidati”. (Francesca Sartori)
Oltre alla libera associazione di donne, a metà degli anni ’80 a Bologna esistono numerosi centri di consulenza legale, generalmente costituiti da donne, avvocate e psicologhe. Intanto però continua a mancare un gruppo in grado di dare supporto a quelle donne che non sono nella condizione di ragionare intorno all’emancipazione femminile, in quanto sono ormai intrappolate nelle trame della rete di vissuti violenti o perché si sono trovate vittime di episodi improvvisi. A partire da questo scenario, un gruppo nutrito di donne comincia a incontrarsi regolarmente presso il Centro delle donne di via Galliera a Bologna. Intanto, anche tra la gente comune inizia a farsi maggiore spazio la consapevolezza nel riconoscere episodi di violenza. Viene fuori una violenza, tanto diffusa quanto nascosta, che si consuma tra le mura domestiche. Il discorso si sposta dallo stupro alla violenza intrafamiliare. Molte donne si rivolgono al Centro raccontando di una vita domestica che assume i tratti di un incubo: ripercussioni fisiche e mentali, privazioni materiali, ricatti psicologici accompagnano la loro quotidianità da troppo tempo. Diventa evidente la necessità di una struttura cittadina in grado di accogliere e aiutare concretamente le donne vittime di violenza e i loro figli. Bisogna creare le Case Rifugio. Nel cercare di elaborare una proposta da presentare agli Enti locali si riscontra come alla mancanza di iniziative si accompagna una generale sfiducia nelle istituzioni da parte delle donne. La soluzione che sembra più adeguata è richiedere un finanziamento pubblico per poter creare delle “istituzioni femminili”. Perseguendo quest’obiettivo, il gruppo di donne si unisce in un’Associazione e sottoscrive nel 1990 una convenzione con il Comune e la Provincia di Bologna, ottenendo così che il loro impegno sia riconosciuto e valorizzato nella creazione di uno spazio femminile autonomo e autogestito.
Nel febbraio del 1991 nasce finalmente la prima casa rifugio in via Capramozza, rendendo finalmente reale la possibilità per molte donne di mettere al servizio della comunità le esperienze in campo d’aiuto condotte in Italia e all’estero. Questo avvenimento segna non solo la possibilità per le vittime di violenza di trovare un aiuto concreto e immediato, ma anche una collaborazione con gli Enti locali che nel caso di Bologna durerà ben dieci anni.
La “Casa delle donne per non subire violenza” è la madre dei vari Centri antiviolenza che tutt’oggi operano in Italia. La casa di Bologna fa da capostipite: seguono poi nell’immediato la Casa delle donne maltrattate di Milano e, l’anno successivo, le Case di Modena, Roma, Latina e Parma. È la nascita di un modello che viene riprodotto negli anni a seguire con l’apertura di centinaia di case rifugio. Nei dieci anni successivi in Italia nascono infatti 70 Centri Antiviolenza, che nel 1996 si riuniscono a Ravenna e, tra le varie iniziative, sottolineano la necessità di stabilire delle pratiche politiche condivise. Si capisce che la forza del progetto può essere ampliata andando a costituire una rete. Nasce così la Rete Nazionale dei Centri Antiviolenza. L’obiettivo è darsi forza, rendersi visibili e avere la capacità di incidere sulle Istituzioni per rispondere ai bisogni e ai desideri delle donne. Da allora — e in tutti questi anni — i Centri offrono servizi alla società, aiutando le donne a riconoscere la violenza nelle relazioni, sostenendole nel percorso di uscita dalla violenza e per l’affermazione dell’indipendenza e della libertà. I Centri costruiscono progetti con le donne trasformando il servizio in azione politica di cambiamento dell’intera società. Attenti a rispondere ai bisogni di donne e bambini/e, vittime della violenza maschile, e attivi e tenaci nel sollecitare le istituzioni a mettere al centro della loro agenda politica azioni contro la violenza, i Centri italiani vogliono creare servizi indipendenti e progettualità politiche utili per l’affermazione dei diritti delle donne. Le associazioni che gestiscono i centri antiviolenza sono migliaia, il loro coordinamento è affidato a Di.Re (Donne in rete contro la violenza) a nome di Wave (Women Against Violence Europe), un network che raccoglie 45 paesi e 4.000 centri antiviolenza sparsi in tutta Europa.
Anche questa volta ho parlato di donne. Era inevitabile per me farlo visto l’anniversario che cade in questo mese, quello più corto dell’anno, quello in cui nel giorno di mezzo si celebra l’amore. Il mese in cui di solito si festeggia il Carnevale. Per me, che amo la simbologia, non poteva esserci mese più adatto.
Le Case Rifugio sono un atto di amore che si rinnova da trentun anni, facendo cadere le maschere di una società malata, che ha la pretesa di dichiararsi civile, restando troppo spesso insensibile davanti alla violenza. Del resto siamo nel 2022, mica nel Medioevo.