Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
I più attenti scopriranno una bugia in sole due righe, ma quanto segue sono solenni verità.
Ho cercato su Google « ridere quando » e i primi nove risultati sono:
un inventario strambo di situazioni in cui in realtà ci sarebbe poco da ridere.
Mi sono chiesta quale fosse il decimo risultato e perché Google ne dia solo nove e non dieci. Forse perché il decimo bisogna aggiungerlo con un po’ di creatività. Ognuno ha la sua decima circostanza in cui ridere quando la buona norma sociale sembrerebbe suggerire che sia disdicevole farlo. Del resto dieci è il numero perfetto, esprime la totalità, il compimento, la realizzazione finale. Pertanto su questa scia di misticismo e simbologia io al numero dieci ci metto il mio ultimo capolavoro di risata convinta senza motivo razionale apparente: questa settimana ho mandato un video agli amici più cari in cui sorridente e ben truccata ho annunciato di essere positiva al Covid, tipo messaggio alla nazione ma con ancora meno credibilità. Ci tenevo che passasse un messaggio preciso: sto bene ah ah ah si ho il Covid ma oh sono truccata ah ah ah sto bene comunque. A volte il mio cervello aziona meccanismi singolari.
Posso restare impassibile davanti a gag comiche che farebbero scompisciare una guardia inglese e poi scoppio a ridere nei momenti più improbabili. Soprattutto quando sto bevendo. Quando ho l’acqua in bocca e qualcuno dice mezza cosa possono succedere dei disastri. Quelli seri mi direbbero «risus abundat in ore stultorum», il riso abbonda sulla bocca degli stolti ma in latino che fa più austero, e io potrei di tutta risposta ridergli in faccia. Sì, potrei farlo davvero.
Come si stabilisce quando è socialmente accettabile ridere e quando è richiesta una parvenza di serietà? Se è ormai normalizzato piangere nelle circostanze più varie io posso ridere quando mi pare. Che poi chi lo dice che piangere è un fatto più serio del ridere. Si piange per dispiacere, per dolore, ma anche per autocommiserarsi, per suscitare compassione, per sbattere i piedi e intascare una vittoria con un impegno minore. Chi ride tanto invece a volte fa fatica.
Si ride davanti a una gag, a un errore, a una battuta, a una caricatura. Si ride per imbarazzo, per disapprovazione, per spazzare via la tensione. Si ride in situazioni di ilarità e in quelle più impensabili come i nove risultati di Google suggeriscono. Ridiamo perché siamo homines ridens immersi «in situazioni controverse in cui la comicità è soltanto una delle modalità caratterizzanti» (Le Breton, 2019, p.23) e «spesso in un clima di tensione estrema, il riso è come una smorfia ironica che però autorizza una specie di grottesca abreazione» (Le Breton, 2019, p.35).
Si ride talvolta quando la buona norma sociale più o meno esplicita nega la possibilità di farlo. Dì a qualcuno di non ridere e quello riderà. Imperativo categorico della libertà d’animo –volendo fare i romantici– o strategia vincente di chi ha basato un’intera biografia sulla via di fuga, che tanto alla fine l’obiettivo mai come ora è restare ancorati al presente, le modalità fanno solo da contorno.
Si ride perché si è vivi e, fino a prova contraria, piangere non ci assolverà dal gravoso compito di esserlo.
Viva chi ride.
di Tonia Peluso, sociologa
(Trovi questo articolo anche su Medium)
polèmica s. f. [femm. sostantivato dell’agg. polemico]. — Controversia, piuttosto vivace, su argomenti letterarî, scientifici, filosofici, politici, ecc., sostenuta per lo più attraverso una serie di articoli o di altri scritti tra persone che hanno diversità di vedute. L’attività del polemizzare. Con sign. estens., contrasto, discussione portati avanti per inveterata abitudine a contraddire gli altri; atteggiamento di critica preconcetta.
Sport nazionale, passatempo prediletto, strumento inefficace, tentativo fallimentare.
polèmico agg. [dal gr. πολεμικός «bellicoso, guerresco», der. di πόλεμος «combattimento, guerra»] (pl. m. -ci). — 1. Detto di persona, generalm. d’indole battagliera e combattiva, che tende ad assumere, o assume, un atteggiamento di decisa opposizione, soprattutto su un piano concettuale, contro ciò che contrasta con i suoi interessi o con il suo punto di vista, e sa sostenere validamente e con vivacità, talora aggressiva, le proprie ragioni.
Ma non è detto abbia ragione.
In un momento preciso della settimana appena trascorsa mi sono arresa.
All’improvviso, davanti al Presidente del Consiglio che sminuisce la categoria professionale degli psicologi in diretta nazionale, nell’esatto momento in cui sarebbe toccato a me scendere in campo e prendere il posto dei poveri runner dimenticati e degli adolescenti irresponsabili che si vedono al parco, ho pensato “Ma chi me lo fa fare?”.
Ho capito che, in questo anno e più di deprivazioni, mi è capitato di desiderare e ricercare la polemica del giorno, col solo obiettivo di cavalcarla. Quanto mi è costato? Oggi posso dirlo: tanto.
Così, mentre per una volta ci stavano pensando i miei colleghi a fare la guerra, mi sono seduta sulla necessità di riposarmi a guardare quello che succedeva.
Se quella “della polemica” fosse una settimana dell’anno, sarebbe quella appena trascorsa.
Festival della polemica, programma:
OVERTURE: Aldo Grasso spreca un articolo di giornale per raccontarci che, secondo lui, un programma che dovrebbe far ridere, in realtà, non fa ridere.
L’utente medio su Twitter: difendere un programma televisivo di successo a suon di meme, teorie e tecniche
NAS / Henri Bergson e l’illusorietà del concetto di tempo:il virus viaggia sui mezzi pubblici / Ah.
DDL ZAN: il senatore Pillon sbeffeggia un noto marito/cantante/influencer giocando col suo nome d’arte
Cancel culture: cavall* di battaglia
European Medicines Agency (EMA): “I benefici che superano i rischi”; utilizzare la statistica per convincere, ma senza spiegare. Come confondere la popolazione in tre, contraddittorie, conferenze stampa.
La questione etica: obbligo vaccinale, scudo penale e consenso al trattamento per assunzione dei rischi relativi a un evento avverso raro / “Se i miei anziani parenti non sono stati ancora vaccinati è anche colpa tua” / Dare a Cesare quello che è di Cesare — Laboratorio di processi attribuzionali
Interviene: il Presidente del Consiglio Mario Draghi in “Io prendo le decisioni, me ne dimentico, ma tu agisci secondo coscienza altrimenti me la prendo con te e tre quarti della categoria professionale tua”.
Main Sponsor dell’evento: confirmation bias
Il perché ho ritenuto fosse conveniente fare un passo indietro, quando mi è stato detto che non avrei potuto porre un quesito etico sull’obbligo della vaccinazione con il vaccino peggio discusso di sempre, è proprio qui.
Sir Francis Bacon, nel suo “Novum Organum” (1620) fa riferimento a “un peculiare e ripetitivo errore del capire umano, di propendere maggiormente e con più enfasi nei confronti delle affermazioni più che delle negazioni.”
Lo psicologo Raymond Nickerson (1998) definisce il Confirmation Bias (l’errore di conferma), come “la ricerca o l’interpretazione di prove in modo che siano favorevoli a esistenti credenze, aspettative o ipotesi del soggetto interpretante.”
Gli errori cognitivi, questo in particolare, non risparmiano nessuno.
Non siamo programmati per falsificare le ipotesi, Karl Popper se ne faccia una ragione; al contrario, tendiamo a cercare prove ed evidenze a sostegno delle nostre idee, rigettando quelle contrarie ad esse e lo facciamo soprattutto, si è ipotizzato, per difendere il nostro senso d’identità personale, di appartenenza al gruppo sociale.
La caccia alle streghe non è mai finita perché, spesso, e per nostra natura, è strega tutto ciò che si allontana da quello che noi vorremmo, faremmo, condivideremmo.
L’errore di conferma ostacola la valutazione pubblica di opinioni e argomenti, favorendo la propaganda politica, la scarsa credibilità dei mass media, il disprezzo per l’opinione degli esperti, la polarizzazione e manipolazione delle opinioni, il conformismo sociale.
Mi prendo una pausa da questo sport nazionale, o almeno ci provo.
Nessuna opinione è insindacabile, ma le nostre siamo raramente disposti a metterle in discussione. Non è una dieta bilanciata, meglio correre ai ripari.
di Arianna Capulli, psicologa