VIVA #21
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Gli influencer inventano la beneficenza
1871: Antonio Meucci brevetta un apparecchio, chiamato telettrofono, che permette di comunicare a distanza. Nasce il telefono.
1946: Corradino d’Ascanio disegna un nuovo modello di scooter della Piaggio, che rappresenta uno dei disegni industriali più famosi al mondo e simbolo del design italiano. Tutto il mondo conosce la Vespa.
2022: gli influencer inventano la beneficenza.
A ogni secolo i suoi lustri.
Come? La beneficenza esisteva anche prima? Certo, ma alcuni sembrano immaginare gli anni pre-social come secoli bui in cui si rubavano le coperte ai senza fissa dimora. Che poi questo di recente è successo davvero, ma il sindaco, che ha ideato la nobile ordinanza, ci ha tenuto a diffondere la notizia a mezzo stampa. Dicevo, la beneficenza esisteva ben prima dei social. E anche prima, molto spesso, andava esibita.
Nell’Inghilterra vittoriana la beneficenza e l’opera caritatevole si affermano come comportamento conveniente e socialmente apprezzato, così le signore dell’alta società organizzano cene, eventi e spettacoli volti a raccogliere fondi per enti e orfanotrofi. La beneficenza però è molto più di questo. È un privilegio da ricche annoiate, un rituale grazie al quale le signore rimarcano il loro status e si discostano dal popolino. La beneficenza, in epoca vittoriana, si tinge di una filantropia moraleggiante che, se da un lato aiuta chi realmente vive condizioni di bisogno, dall’alto è funzionale a mantenere l’ordine sociale. Peccato non ci fosse Instagram ai tempi, ché io già immagino le stories con «Hi guys, domani facciamo una diretta pazzesca dalla poorhouse» e poi via di foto con gli orfanelli con i pigiami in palette.
Siamo nel 2022, l’epoca vittoriana ci sembra lontana, le poorhouse pure, eppure spesso ci imbattiamo in un’ostentazione di tutto ciò che ruota intorno alla beneficenza che sembra ripercorrere, pari pari, i meccanismi dei salotti delle nobildonne. Lo dichiaro subito, a scanso di equivoci, per me la beneficenza è una di quelle poche aree dell’operato umano in cui il fine giustifica i mezzi, come diceva non so chi, non di certo Machiavelli che non l’ha mai scritto. A chi sta in Ucraina non importa da dove arrivano le medicine, da quali mani passano i giubbotti pesanti. A chi arriva in Italia interessa poco sapere perché qualcuno decida di pagargli una stanza per qualche notte. I bisogni primari seguono logiche immediate, i ragionamenti li facciamo noi al caldo, comodi dietro la scrivania o col culo sul divano. Ma non è un capriccio. È un problema di ordine morale e di direzione verso la quale stiamo costruendo la società di domani. È un privilegio, ma anche un dovere, di cui dobbiamo farci carico fino a che abbiamo ancora la speranza di poter pensare a un domani.
Perché doniamo?
In “Il linguaggio del dono” Godbout scrive: «Il dono non è mai gratuito, così come non è una produzione o uno scambio puramente a fine di lucro, ma una specie di ibrido. Chi dona si attende un controdono, ma l’aspetto sostanziale è l’assenza di costrizione, vale a dire l’assenza di contratto, di coercizione».
Doniamo aspettandoci in cambio qualcosa di non ben definito. Potrebbe trattarsi solo di approvazione sociale o di una mossa dettata dal pensiero magico: dono perché mi porta bene. Potrebbe essere un modo di dilazionare nel tempo la reciprocità: dono perché domani potrei aver bisogno di qualcosa e ci sarà qualcuno a donare per me. Potrebbe essere puro marketing e se il pensiero fa schifo poco importa, fa parte dell’ampio spettro di comportamenti utilitaristici che decidiamo di farci andare bene, pur trovandoli ripugnanti.
Per Jacques Derrida, invece, affinché si possa parlare di dono ci deve essere unidirezionalità senza ritorno. Neanche mediatico, aggiungo. Così pensato, il dono appare inconcepibile. Jean Luc Marion aggiunge che, per poter parlare di dono, non solo non debba essere pensato un ritorno, ma neanche esservi alcun legame tra ricevente e benefattore. In più, il ricevente deve restare anonimo. Per intenderci, è ciò che avviene ancora oggi con la donazione degli organi.
La beneficenza è la soluzione perfetta: un dono generalizzato. Il triangolo donare-ricevere-contraccambiare viene mutilato dell’ultima azione. La carità non prevede un ritorno, perché indirizzata a un altro generalizzato. La beneficenza è per definizione un atto disinteressato. Eppure, non lo era in epoca vittoriana e, ahimè, non sembra esserlo per molti oggi.
Ho assistito nelle ultime settimane a una corsa a donare, raccogliere, smistare, caricare scatoloni con un’attenzione maniacale al fatto che si sapesse. I social si sono riempiti di raccolte fondi, punti di incontro, iniziative, richieste. Per fortuna, mi vien da dire. Dare rilevanza a iniziative positive è sicuramente il successo più grande di secoli e secoli di progressi nel campo della comunicazione. C’è però un rischio, molto forte, nel credere che tutto ciò che non sia documentato dalle immagini e riconosciuto da un discreto seguito non esista.
Pochi giorni fa un utente su Twitter ha criticato uno degli influencer più attivi nelle raccolte di beni per l’Ucraina, circa le modalità con cui stava portando avanti il suo operato. Non entro nel merito della questione, non ne ho i mezzi né credo sia utile in questo momento. Mi ha colpito però quando, nel bel mezzo della discussione, l’influencer ha sostenuto che senza i social non ci sarebbero state quattrocento persone a caricare i tir in piena notte. È vero? A occhio no, queste cose sono sempre successe col passaparola, le associazioni e le reti di solidarietà.
Wioletta, Antonio, Luana Instagram neanche lo hanno eppure venerdì hanno riempito i furgoni, facendo girare la voce come si è sempre fatto: un messaggio al docente che nella loro sede ha fatto diversi corsi, qualche volantino, la classica bussata di porta al vicino che si alza dal divano convito che tu abbia finito il sale e invece gli stai per chiedere un pacco di umanità che non gli restituirai, il passaparola insomma.
I social potrebbero avere il merito di aver coinvolto un pubblico diverso, a volte anche giovane, che non si sarebbe interessato o almeno non con lo stesso entusiasmo. E questo è un bene. Chiedersi perché però è un dovere.
I social hanno permesso di trasmettere un unico messaggio a tante persone, tante quanto il bacino di utenza dei vari influencer attivi. Sono entrati nelle case in maniera immediata e diffusa, senza manco l’impiccio di dover bussare alla porta. Hanno dato prova di avere sempre più potere nel coinvolgere le persone, affermandosi come una nuova piazza di aggregazione e influenza. E allora interrogarsi è necessario. L’influenza, che oggi aiuta, domani potrebbe cambiare di verso. Sarebbe influenza anche al contrario, trasmettendo messaggi negativi. Per molti aspetti lo è già stato. Non rischiamo di lasciare l’influenza a chi agisce senza schemi adeguati.
Il problema reale, che ho rilevato, non sta tanto nelle intenzioni che sottendono la beneficenza, ma piuttosto nel fatto che corriamo il rischio di considerare la società sempre più simile al social, crescendo una generazione che non ha la capacità di distinguere cosa appartiene al reale e cosa, invece, resta relegato nella verosimiglianza di un mondo che sembra solo quello più desiderabile. Il rischio è far diventare tutto un contenuto che si spoglia della sostanza per andare a riempire l’enorme recipiente della gratificazione istantanea, magari adattandosi a una forma a cui non siamo abituati, ma ritenuta valida.
Si tratta di conservare una società che, per quanto abbia un rapporto discorsivo coi social, essendone anche profondamente influenzata e affascinata, non è sorretta però dalle stesse regole. E non lo sarà ancora per molto. Questa è una buona notizia.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
I buoni, i cattivi e la negazione
La negazione, o diniego, è un meccanismo di difesa tipico della prima infanzia che ben riflette il pensiero magico dei bambini piccoli: negare una realtà sgradita equivale ad eliminarla.
Una strategia individuale divenuta, negli ultimi anni e a causa dei social, il fianco prestato alla più becera propaganda.
Lo abbiamo visto durante l’emergenza sanitaria; abbiamo ipotizzato che, chi negava l’esistenza del virus, lo facesse per la paura di dover ammettere che avrebbe potuto esserne vittima. Abbiamo esperito le enormi difficoltà incontrate nel tentativo di convincere le persone dell’esistenza di qualcosa di rilevabile, ma non osservabile. Nostro (e loro) malgrado, abbiamo assistito alla possibilità che la presunta difesa diventasse un concreto pericolo di morte quando qualcuno si è opposto alle cure e alla prevenzione. La pandemia ci ha colti impreparati e scorgere gli effetti del diniego ci è sembrata una novità.
La negazione è contrapposizione, polarizzazione. Se soggetto A dice a e io non mi fido di soggetto A, allora dovrò dire necessariamente b perché se a non è la certezza assoluta allora b sarà sicuramente la verità. E poco importa se sia solo — la mia verità — perché io ho un atavico bisogno di credere che la mia verità sia certezza, che i miei pensieri siano veri. Questo, ancora una volta, mi protegge dal dubbio, dalla confusione. Mi illude di conoscere perfettamente la realtà che spero di poter in qualche modo controllare.
Siamo abituati a dividere il mondo in buoni e cattivi, quando sarebbe decisamente più conveniente imparare a dividerlo in chi pensa e dice cosa e perché. Se considero A il protagonista buono della vicenda allora sarò più portata a pensare che A stia dicendo la verità, ad applaudirlo, a chiedere che si faccia quello che A chiede di fare. E se poi A, che sta combattendo una guerra, si collega con una piazza colma di persone riunite in favore della pace chiedendo, di fatto, di aiutarlo a difendersi, applaudirlo significherà tradire lo stesso ideale che ci ha fatto scendere in piazza. L’essere umano non è coerente per natura, ma, nel tentativo di trovare quella coerenza che tanto desidera, diventa profondamente contraddittorio.
Il diniego applicato alla guerra non ci è nuovo. “Alcuni negazionisti sostengono che poiché non esiste un solo documento che descriva il piano dell’Olocausto, né un documento firmato da Hitler che ne ordini l’esecuzione, esso non sia che una gigantesca truffa.” https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/holocaust-deniers-and-public-misinformation
Dalla negazione al negazionismo. Gli attentati dell’11 settembre, la morte di artisti di fama mondiale, persino Lady Diana ci è piaciuto pensare fosse ancora viva. Di solito si tratta di eventi che ci vengono presentati in un’edizione straordinaria del telegiornale, che impattano in modo significativo con la nostra sfera emotiva, un impatto così inaspettato e violento che allontanarlo è il minimo che possiamo provare a fare.
Possiamo davvero giustificare ogni forma di negazionismo collettivo con la sola paura di accettare gli orrori del mondo? Personalmente, non credo. Poteva valere fino a qualche tempo fa, ma non oggi, in un mondo che è un bar sconfinato, davanti al quale, ogni persona che passa, racconta la sua verità e se ne va prima che qualcuno possa instillare il dubbio. Ipotizzo anche che il tentativo di portare alla luce le teorie del complotto con l’intento di smentirle, sortisca l’effetto opposto, soprattutto per un motivo, spesso trascurato: pochi aprono l’articolo, molti leggono il titolo. Il titolo però non basta a mettere in evidenza la contraddizione e il danno è fatto.
L’invenzione della foto ha fatto sperare in un avvento dell’oggettività storica. Si immaginava che essa potesse diventare la continuatrice non solo della pittura —a sua volta soggettiva— ma della memoria intera, nel suo oggettivo insieme.
– Luigi Zoja, Vedere il vero e il falso
La verità è che la nostra mente è fallibile, cade molto facilmente in errore. Riteniamo i nostri pensieri veri, reali, verosimili, una spiegazione assolutamente coerente col dato di realtà. L’algoritmo sa come funziona la nostra mente, i potenti del mondo lo hanno imparato.
Lo hanno imparato così bene che la madre di un ragazzo ucraino che è anche moglie di un uomo russo, non sa da che parte stare perché, ambo le parti, ognuno è convinto di essere nel giusto e difende, con le armi, la sua verità.
L’unica difesa adattiva è la coltivazione del dubbio, in un mondo che non è mai stato perfetto e che mai lo sarà. Un mondo in cui la verità assoluta non esiste.