VIVA #23
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email
Psicologia dell’invecchiamento — una riflessione
“Ho portato tuo nonno all’ospedale, è un po’ depresso, magari gli fanno qualcosa.”
“Gli hanno detto che non ha nulla, ma continua a essere depresso.”
“Ciao nonna, nonno come sta?”
“Bene, la pressione sta bene, ma c’ha paura di morire.”
Mi hanno chiesto cosa fare e mi sono trovata molto in difficoltà. Ho provato a concentrarmi per reperire in memoria conoscenze stipate che potessero darmi un suggerimento, ma non ci sono riuscita (probabilmente complice il forte legame affettivo). Vado verso la libreria, pensando di trovare lì le risposte che cerco. Ma quali risposte cerco? Cosa voglio sapere?
Si è aperta una porta nella mia mente: ho pensato a quando eravamo nel pieno della pandemia, a Cecilia Sala che va a cercare un ultranovantenne sopravvissuto ai bombardamenti di Cernihiv, a quanto siamo comprensibilmente così tanto impressionabili dalla sofferenza di chi ha tutta la vita davanti e, forse, mi permetto, quasi rassegnati davanti al dolore di chi — la sua vita se l’è fatta. Mi è sembrato come se la vita, da un certo punto in poi, fosse solo il numero degli anni che hai.
Ho pensato a Uomini e Donne Over, alla possibilità che viene data a molti di stare in compagnia, mettersi in gioco, ma anche alle umiliazioni subite da alcune persone avanti con l’età a scopo audience. Ho pensato a Nipoti di Babbo Natale, ai desideri espressi. Ho pensato all’ora e mezza di chiamata con gli operatori del gestore telefonico, per annullare le tredici offerte attivate da mio nonno, sotto suggerimento dei commessi del negozio.
Mio nonno, qualche tempo fa, mi ha detto qualcosa che mi ha fatto gelare il sangue: “Devo sperare di non vivere troppo a lungo, perché non ho così tanti soldi da parte da potermi permettere di continuare a pagare un affitto che aumenta sempre di più, ogni mese di più”. Da un lato la paura di andarsene, dall’altro quella di rimanere.
Ho la sensazione che si guardi agli anziani perlopiù con rassegnazione, tenerezza, pena in alcuni casi. Raramente si approccia alle loro esigenze col problem solving, nel paese del “tanto ormai, che ci vuoi fare.”
In un Sistema Sanitario Nazionale che funziona, per fortuna, riusciamo a curare tante persone, quando possibile. Ma, lo sappiamo, non possiamo fare molto di più: ti metto nelle condizioni di andare avanti. Come, non dipende da me. L’assenza di servizi di psicologia e psicoterapia nella sanità pubblica si ripercuote anche sulle persone anziane, che nella gran parte dei casi non considerano, non solo per limiti economici, ma anche culturali, altre vie per prendersi cura della loro salute mentale.
Dopo qualche ora, metto insieme alcuni pezzi.
E. Erikson (1999), elaborò la teoria dello sviluppo psicosociale ampliando la teoria dello sviluppo psicosessuale di S. Freud e ridimensionando l’importanza data da Freud alla sfera sessuale, focalizzandosi su pulsioni sociali che indurrebbero la persona, in diversi momenti della vita, a definire il proprio ruolo in relazione alla società. La maturazione e le aspettative sociali generano momenti di — crisi — che impongono all’individuo un nuovo e più efficace adattamento. Senza dilungarmi troppo sulla teoria, complessa e articolata, l’ottavo stadio prevede due dimensioni in antitesi tra loro: l’integrità, cioè l’accettazione dei limiti della vita, spesso a seguito di una rielaborazione in chiave positiva del proprio percorso di vita e la disperazione, dovuta a una rilettura in chiave negativa dello stesso percorso, che si fonde con la paura della morte quindi di non avere né il tempo né le risorse percepite per rimediare a quanto si è fatto o non si è fatto.
Perché la lettura data non conduca alla disperazione, è fondamentale che l’anziano sia supportato, ascoltato, sostenuto. È fondamentale evitare che l’isolamento e lo scarso/assente supporto sociale incrementino il rimuginio e la ruminazione depressiva. In relazione alla maggiore aspettativa di vita, sono soprattutto le donne a correre il rischio di un isolamento progressivo. Riflessione in tono polemico di chi scrive: perché di quelle donne non parliamo spesso?
La teoria di Erikson ha aperto la strada a una riflessione ben più ampia su come la psicopatologia dell’anziano sia fortemente e inevitabilmente correlata con il rapporto che ha con il contesto socio-culturale all’interno del quale è inserito.
Da un rapporto dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) emerge quanto segue:
“La prevalenza di parecchi problemi di salute mentale aumenta con l’età. Ciò è in parte dovuto a mutamenti organici, in parte è da attribuire alla prevalenza crescente di disturbi fisici che impediscono la funzionalità del cervello, ed in parte agli stress ambientali e psicologici che affliggono gli anziani più spesso che i giovani. La perdita dell’autonomia, la perdita di una persona cara, la povertà e l’isolamento sono esempi ben noti. Ciò nonostante, le indagini rivelano che gli anziani sono per la maggior parte mentalmente sani.
Molti disturbi mentali possono iniziare a qualunque età; la maggior parte dei disturbi che colpiscono gli anziani non è dovuta all’invecchiamento, e si sono osservati decorsi e reazioni ai trattamenti identici a quelli di soggetti più giovani. Nonostante ciò, è assai diffusa l’opinione che la malattia mentale negli anziani sia inevitabilmente progressiva e che la terapia possa essere soltanto sintomatica. È molto importante sradicare tale preconcetto, che spesso conduce ad un nichilismo terapeutico”
Scrive Zuliani: “Mi sembra che tutto ciò sottolinei che la precondizione per poter lavorare, a qualsiasi titolo, con i vecchi, sia quella di concepire che per loro vi sia un futuro. Tutta la condizione dell’uomo è fatta di passato, presente e futuro e l’integrità dell’identità personale sta proprio nella possibilità di comprendere contemporaneamente queste tre dimensioni al proprio interno.”
Le più frequenti condizioni che implicano sofferenza psicologica in età senile riguardano principalmente il disadattamento, varie forme di sindromi ansioso-depressive e il declino cognitivo che coincide spesso con la difficoltà di operare valutazioni cognitive coerenti con l’esame di realtà. Le condizioni psicopatologiche sopra elencate, durante l’invecchiamento, assumono specifiche connotazioni. Le precarie condizioni di salute acuiscono il vissuto di paura, ansia, angoscia, soprattutto in relazione alla possibile perdita di autosufficienza, con conseguenze negative sulla percezione di autoefficacia e sull’autostima.
Il malato psicogeriatrico, scrive Marcello Cesa-Bianchi, “ha necessità di essere complessivamente compreso e aiutato sul piano clinico, umano ed esistenziale.”
Come sempre accade, all’impegno della scienza e dei professionisti sanitari, deve far da presupposto un cambio di prospettiva sul piano culturale. La vita è vita, dall’inizio alla fine. Come accade con la disabilità, abbiamo il dovere di ricordare che lo svantaggio associato a una particolare condizione diventa tale soprattutto perché non si coltivano le risorse per ridurlo, anche dal punto di vista istituzionale.
“Nell’avvenire che ci aspetta è in gioco il senso della nostra vita; non sappiamo chi siamo, se ignoriamo chi saremo: dobbiamo riconoscerci in quel vecchio, in quella vecchia; è necessario, se vogliamo assumere interamente la nostra condizione umana.”
– Simone De Beauvoir, 1970
In questo breve excursus nella letteratura, scientifica e non, come avrete notato, si incontrano molte riflessioni acute, citate nel presente testo. Utile riflettere, ma quando agiamo? Come agiamo?
Scrivo a Tonia, che mi racconta (qui di seguito) cosa si può fare all’atto pratico, dandomi speranza.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
I vecchi sogneranno dei sogni
Se chiedessi a un gruppo di persone di pensare al primo cambiamento importante che ricordano nella loro vita una buona percentuale di esse mi parlerebbe dell’adolescenza.
Beata adolescenza, direbbero ora. Eppure, è stata per molti l’età delle paturnie più crudeli, il tempo dei cambiamenti fisici, la prima volta in cui siamo dovuti scendere a compromessi con il nostro corpo, accettandolo, odiandolo, modificandolo. L’adolescenza è la fase di transizione che dalla fanciullezza ci spinge a calci nell’età adulta, chi più e chi meno. È una fase complessa, in cui si iniziano a prendere le misure con il mondo intorno e il futuro comincia a delinearsi. Siamo stati tutti adolescenti, sappiamo quanta difficoltà si possa sperimentare e, pertanto, tendiamo a giustificare tutto quello che avviene negli anni della crescita. Crescerà, ci diciamo. È normale incazzarsi alla sua età, ripetiamo. Tendiamo ad avere verso gli adolescenti una comprensione propria di chi, superato questo rito di iniziazione alla riflessività adulta, riesce a confinare comportamenti a volte devianti e slanci di entusiasmo all’interno di una fase di vita transitoria e formativa. Ci siamo convinti, insomma, che peggio dell’adolescenza non ci sia nulla e che dopo, nonostante mutuo, commercialista, precarietà lavorativa ed esistenziale, sia tutto in discesa. Io, per esempio, non tornerei adolescente neanche un giorno. Anche se devo ammettere che in quegli anni mi sono divertita tanto, ma è stata una fatica capire cosa significasse stare al mondo, o forse solo illudermi di averlo capito.
L’adolescenza è una fase di vita, come l’infanzia, l’età adulta e la vecchiaia. Ogni fase ha i suoi momenti felici e i suoi drammi. Anche se per alcune mostriamo più comprensione che per altre. Di solito siamo meno pronti a giustificare i capricci di una persona avanti con l’età, a meno che non siano giustificati dalla presenza di patologie specifiche. Un adolescente che si annoia è creativo, un vecchio che si annoia è un lamentoso. Un adolescente che straparla è un espansivo, un vecchio che straparla è un rimbambito. Un adolescente che non ci ascolta mentre parliamo è un sognatore, un vecchio distratto è uno strafottente. Ci sfugge in realtà che la vecchia è una fase molto più drammatica dell’adolescenza. Anch’essa comporta paturnie, difficoltà, cambiamenti fisici, la necessità di scendere a compromessi con un corpo nuovo e meno efficiente. In più, se gli adolescenti hanno davanti l’avvenire, gli anziani devono fare i conti con l’idea della morte e la consapevolezza che, per quanto ci si possa tenere in forma, nessuno è mai tornato indietro dalla vecchiaia.
La vecchiaia è già nella definizione una fase dibattuta. Secondo la convenzione internazionale, per anziano si intende una persona con più di 65 anni, ma La SIGG (Società Italiana Gerontologia e Geriatria) non ritiene questa soglia adeguata e sposta l’inizio della vecchiaia all’età di 75 anni. In realtà, secondo una definizione acquisita sarebbe meglio parlare di: giovani-anziani (65 anni — 74 anni), anziani-anziani (75 anni — 84 anni), grandi-anziani (85 anni — 99 anni), centenari (100–105 anni) e ultracentenari (106 anni in su). Ognuna di queste fasi intermedie prevede dei cambiamenti fisici, somatici, emotivi, psicologici e sociali, tanto che si parla della vecchia come una fase in cui si verifica una doppia perdita: da un lato tende a farsi via via strada una perdita funzionale, dall’altra subentra una perdita psico-sociale, che comprende le perdite cognitive, il cambio di abitudini, la tendenza a ritirarsi a vita privata, fino ad arrivare, in casi gravi, a una condizione di emarginazione dalla vita sociale.
La vecchiaia è una fase difficile. L’alternanza tra successi e insuccessi, guadagni e perdite, che ha caratterizzato l’età adulta, sembra perdersi in giorni che hanno perso il ritmo e spesso finiscono per assomigliarsi. A volte gli anziani non ricordano che giorno sia, perché ieri e oggi non sono poi così diversi e domani neanche hanno la certezza di poterci essere. È difficile essere anziani, è difficile essere figli e nipoti di anziani. È difficile allo stesso modo lavorare con gli anziani. Bisogna acquisire un linguaggio nuovo che, comprendendo, non cada nell’errore di mortificare la dignità che queste persone proteggono, come se di riflessero proteggessero la vita stessa. Gli anziani non sono bambini, né adolescenti, né adulti, sono anziani. Comprendere cosa voglia dire esserlo dovrebbe essere uno dei pilastri su cui si fonda una società degna di essere chiamata tale. Non c’è servizio che tenga, non c’è sistema di Welfare che possa risultare efficiente, se alla base non vi si metta l’intenzione di guardare il mondo attraverso gli occhi degli anziani, vagliare soluzioni che siano realmente rispondenti al concetto di cittadinanza e non meri strumenti per liberarsi del peso sociale che sempre più si attribuisce a qualsiasi persona non sia del tutto autosufficiente e produttiva. Gli anziani non sono bambini, ma neanche un peso. Sono la memoria, l’esperienza, sono il passato senza il quale non ha senso il presente e non si può costruire il futuro. Nelle società arcaiche gli anziani erano i saggi, a loro era affidato lo svolgimento dei riti e la responsabilità di prendere le decisioni più importanti. Il rispetto per gli anziani era rispetto per la vita stessa.
Una società lungimirante non mortifica gli anziani e non li esclude dalla vita comunitaria. Anzi, ne fa una risorsa, sostenendo politiche di invecchiamento attivo che sostengono e valorizzano gli anziani, qualsiasi siano le loro condizioni, riuscendo a renderli protagonisti della vita sociale e divulgatori del sapere sociale acquisito nel corso della vita. C’è la necessità, oggi più che mai, di ripensare la quotidianità delle persone anziane, creando occasioni di incontro e svago, ma anche momenti in cui l’anziano si fa soggetto promotore di dialogo tra generazioni e culture, diventando una risorsa per la famiglia e la comunità di appartenenza.
Il concetto di invecchiamento attivo è la pietra miliare sulla quale si ergono i vari centri di socializzazione diurna che, attraverso le attività ricreative e di animazione, si propongono di favorire l’integrazione della persona anziana nel tessuto sociale di appartenenza, consentendo un processo di socializzazione in un circuito di persone esterne alla famiglia, al fine di stimolare l’autonomia dell’anziano e favorire la creazione di relazioni amicali. Il ventaglio dell’offerta dei centri per anziani è molto ampio: ci sono momenti ricreativi come ballo, giochi, intrattenimenti musicali; si organizzano eventi culturali e di informazione come gite, conferenze, visite guidate, spettacoli teatrali e cinematografici a condizioni molto vantaggiose; si dà agli anziani la possibilità di tenersi in forma svolgendo attività sportive come corsi di ginnastica dolce, yoga, tornei di bocce; si prevedono corsi e incontri che hanno l’obiettivo di socializzare gli anziani a campi verso i quali a volte tendono a restare indietro, come corsi di informatica e di lingue straniere.
Se i centri ricreativi sono volti all’intrattenimento e al soddisfacimento della persona, altre iniziative sorte nell’ultimo decennio hanno previsto un impiego attivo degli anziani in attività utili alla comunità. È il caso delle agenzie di cittadinanza che hanno predisposto alcune ore settimanali di servizio civile svolto fuori le scuole o nei parchi urbani. Aiutare un bambino ad attraversare la strada fuori scuola o controllare che nel parco non ci siano aggressioni è un’attività semplice, che non richiede tanto sforzo, ma al tempo stesso riesce a contrastare la perdita di utilità con cui si trovano a doversi confrontare sempre più gli anziani. Continuando sulla scia di favorire il rapporto tra diverse generazioni, diverse esperienze e conoscenze e valorizzare il ruolo sociale degli anziani, sono state pensate molte attività che prevedono un coinvolgimento attivo degli anziani quali promotori di saperi che altrimenti rischierebbero di andare man mano persi. Sono nati così gli incontri nelle scuole che hanno visto gli anziani salire in cattedra per raccontare storie della tradizione — ridando anche importanza ai dialetti — o uscire nei cortili per trasmettere alle generazioni future il valore della terra e le tecniche principali con cui avere cura degli orti.
Anziani che rivivono nei centri ricreativi, anziani che si mettono al servizio della comunità grazie al servizio civile e alle attività scolastiche, ma anche anziani che si fanno fautori di un processo ampio di integrazione, come succede a Sassari nel Parco dell’integrazione. La storia di questo parco è una storia bella perché racconta un progetto ben riuscito e i cui benefici ricadono su diverse tipologie di utenza. Si tratta di un parco che fino a qualche anno fa giaceva abbandonato, all’interno di Casa Serena, una struttura residenziale per anziani. Nel 2017 questo parco è stato riqualificato e donato alla cittadinanza, grazie al lavoro di tredici giovani provenienti dalla Costa d’Avorio, dal Senegal, dalla Repubblica di Guinea e dalla Nigeria e residenti in centri di accoglienza sul territorio. A guidare i giovani ragazzi sono stati proprio gli anziani ospiti della struttura che hanno supervisionato e accompagnato i ragazzi durante tutto il progetto di allestimento dei fiori e delle piante e nella creazione dell’orto. Il parco è aperto al pubblico, frequentato dalle famiglie, ed è diventato la sede in cui vengono organizzate manifestazioni cittadine, come la spremitura dell’uva che avviene in collaborazione con alcune classi della scuola primaria. La forza dei giovani e l’esperienza degli anziani hanno donato alla comunità un parco di circa un ettaro, dotato di panchine e opere d’arte.
«I vostri vecchi sogneranno dei sogni» recita un verso della Bibbia.
Io voglio vivere in una società in cui gli anziani possano ancora avere dei sogni.