VIVA #25
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
TW: Si parla di mamme e di Elisabetta Franchi, con un po’ di sofisticazione.
A’ Mamma
Chi tene ‘a mamma
è ricche e nun ‘o sape;
chi tene ‘o bbene
è felice e nun ll’apprezza
Pecchè ll’ammore ‘e mamma
è ‘na ricchezza
è comme ‘o mare
ca nun fernesce maje.
Pure ll’omme cchiù triste e malamente
è ancora bbuon si vò bbene ‘a mamma.
‘A mamma tutto te dà,
niente te cerca
E si te vede e’ chiagnere
senza sapè ‘o pecché,
t’abbraccia e te dice:
“Figlio!!!”
E chiagne nsieme a te.
Salvatore Di Giacomo
Questa è la prima poesia che ho imparato, il primo anno di asilo. Ogni volta che mi ci imbatto mi torna in mente un’immagine precisa. Ci sono io che cammino al mercato, la mano nella mano di mia mamma, mentre recito questi versi a oltranza. Un’immagine tenera, fino a che non ne sbaglio uno. A mamma tutto te cerca, niente te dà, affermo convinta, cambiando in un momento totalmente il senso della poesia. L’ho detta così per un po’, nonostante mia madre cercasse con calma di spiegarmi dove le mie parole inciampassero nell’assurdo. Sono andata dritta, con la presunzione di essere dalla parte giusta, già a tre anni. Una roba che se ora un nano di 95 centimetri d’altezza lo facesse verso di me staremmo lì a giocarci l’errore diplomatico con i servizi sociali.
La prima lezione che ricordo di mia mamma è questa: accettare che quel mio tentativo di indipendenza prendesse la forma che stavo decidendo di dargli, anche se poi non combaciava con la realtà delle parole, né delle sue intenzioni. Questo l’ho capito nel tempo.
Mia mamma è — e sempre è stata — per me una spalla su cui appoggiarmi quando sono stanca. È colei che traccia la strada lasciandomi la libertà di non percorrerla. Mia mamma mi ha insegnato la disobbedienza e l’insubordinazione. Da lei ho appreso, crescendo, che spesso ci sono ragioni per tacere, ma davanti alle ingiustizie bisogna trovarne sempre una in più per farsi sentire.
Mia mamma è la donna più convincente che conosca. Sa darmi spesso una chiave di lettura diversa dalla mia: più leggera, più altruista, figlia della speranza. Mi ha trasmesso il senso dell’ospitalità, anche mentre a me dava fastidio la gente per casa. Ha voluto per me un presente e un futuro diverso dal suo passato. L’arte della vita la sto imparando da lei, la bellezza invece me l’ha data in eredità (con l’umiltà).
La parola mamma per me coincide con la figura imperfetta e frastagliata di mia madre. Una figura che mi circonda, lasciando però aperti i varchi che portano all’indipendenza.
La mia emancipazione ha germogliato nell’idea che lei mi abbia voluta. Io so, con certezza, che mia mamma — pur giovanissima — ha scelto di avermi. In Lettera a un bambino mai nato, Oriana Fallaci scrive “La maternità non è un dovere morale. Non è nemmeno un fatto biologico. È una scelta cosciente” e ancora “Essere mamma non è un mestiere; non è nemmeno un dovere: è solo un diritto tra tanti diritti”. Io sono stata per mia mamma una scelta e un diritto, tra tanti diritti. Questo mi rasserena. Non avrei voluto essere per lei un peso o un obbligo, né tantomeno una bambola da esibire per dimostrare agli altri di essere riuscita ad allinearsi, nei tempi giusti, a traguardi considerati socialmente accettabili. Non avrei voluto mai che mia mamma mettesse totalmente da parte la sua vita per dedicarsi anima e corpo solo a me e, dopo, alla mie sorelle. Io ricordo che da piccola a volte andavo con mamma a lavoro e, nella sua fatica, scovavo la fierezza e coltivavo il desiderio di essere un giorno forte quanto lei, indipendente come lei.
Chi tene ‘a mamma è ricche e nun ‘o sape. Sono ricca, sono fortunata. Lo so.
Essere madre è un diritto, dicevo. Non è un obbligo, anche se ogni tanto Pillon ci attacca la filippica sul calo della natalità e la mia vicina mi ricorda che a 31 anni non ho figli, mentre lei alla mia età ne aveva tre e pure già grandi. Essere madre non è un’etichetta per darti di default un’aria di rispettabilità, come pensa Giorgia donna-madre-cristiana. Essere madre non deve essere un impedimento. Invece, ancora oggi, sono troppe le donne costrette a mettere da parte carriera e aspirazioni perché non vi è un sistema di Welfare in grado di sostenere non la maternità, ma un’equa responsabilità genitoriale, perché un figlio non è un fatto solo di chi lo sgrava.
Appena ieri sui social si è sollevata l’indignazione per le affermazioni di Elisabetta Franchi che parafrasiamo come: le ragazze giovani sono un problema per gli imprenditori perché si arrogano il diritto di voler fare i figli, allora il trucco è assumere ai vertici solo uomini o donne anta — già rodate, ma ancora fighe — che si siano già sposate, abbiano già figliato e si spera già divorziato così che possano dedicarsi al lavoro 24 ore al giorno. È un po’ come Checco Zalone che in Sole a Catinelle interrompe un comizio per dire:
«Quando io imprenditore assumo una donna e questa il marito la mette incinta, io, io, devo pagare gli assegni familiari, io devo sostituirla, io devo pagare la formazione a chi la sostituisce, io devo reintegrare, io devo riformare. Allora operaia sai che ti dico? Te vuoi andare incinta? La botta te la do io»
Checco Zalone è però solo un personaggio che, in maniera grottesca, porta sullo schermo la visione chiusa e misogina di una mentalità imprenditoriale di cui troppi fanno ancora parte, sentendosi legittimati da un sistema politico vecchio e inadeguato, che non è in grado di garantire tutele e pari opportunità. Elisabetta Franchi invece esiste e sta lì a dire, con la spocchia di chi ha posato il culo su un cumulo di soldi, cose tanto becere da sollevare l’indignazione popolare, fornendo però al tempo stesso una fotografia nitida del nostro bel paese: viviamo in una società in cui essere mamma può diventare un gran problema.
Essere mamma oggi sembra non essere più un diritto, resta ancora un obbligo che deve però fare i conti con la mancanza delle condizioni necessarie ad assolverlo.
Io non lo so cosa voglia dire essere mamma. Non lo sono. Sono zia, sono figlia. In entrambi i ruoli lo sperimento in una forma appena accennata e mi preparo a ciò che spero sarà il mio essere mamma: un porto da cui salpare e dove tornare, nel mezzo tutta la vita da scoprire gonfiando la vela.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Consapevolezza è libertà
Ieri ho avuto l’opportunità di fare una diretta su Instagram con Costanza Cappelli (@la_connie), che abbiamo deciso di titolare “L’uso consapevole dei social”. Un argomento vasto, me ne rendo conto. Provo a riassumere quanto detto, corredato da alcune riflessioni, che non possono, per la natura del tema, essere esaustive.
Uno strumento assolve le sue funzioni. La funzione principale dei social network (seppur con diverse modalità piattaforma dipendenti), quella per la quale sono stati pensati (sicuramente non l’unica, a non voler essere ingenui) è favorire la condivisione, l’interazione, il confronto. È fondamentale conoscere lo strumento, conoscerne limiti e vantaggi, rischi e implicazioni relative al suo utilizzo. Lo strumento è unico per tutti, per milioni di persone nel caso dei social network. Non è pensabile questo si adatti, nelle sue funzionalità, a ognuno di noi. È possibile però adattarsi allo strumento, rinunciando alla pretesa di controllarlo (e con lui le persone che creano e pubblicano contenuti), imparando casomai a gestirlo.
Stigmatizzare i social network ci deresponsabilizza e questa rinuncia all’atteggiamento proattivo ha delle ripercussioni sul modo in cui li utilizziamo quindi su quello che proviamo.
Raccontava Costanza Cappelli, nel corso della diretta, di come a lei sia capitato di togliere il follow a persone che magari non avevano detto o fatto qualcosa di valutabile come universalmente sbagliato, ma che tuttavia, a lei, non era piaciuto. Utilizzare lo strumento consapevolmente ha a che fare proprio con questo: con la scelta. La scelta di utilizzarlo come riteniamo essere per noi più opportuno e meno dannoso, favorendo le nostre preferenze, rispettando le nostre esigenze, ascoltando i nostri bisogni.
Si sente sempre più spesso parlare di una tendenza al perfezionismo alla quale i social inciterebbero, soprattutto invogliando all’uso di filtri per cambiarsi i connotati e, onestamente, mi sembra questo sia così evidente da non giustificare quel condizionale. Mi domando: siamo sicuri però che i livelli di performance richiesti sui social (crea contenuti perché ci guadagni in visibilità, interagisci per fare engagement, cavalca la polemica perché anche questo genererà traffico, conta il numero di like per attribuirti valore) non siano equiparabili alla pretesa di una società, social a parte, che ci vuole sempre più performanti? Basterebbe leggere alcuni annunci di lavoro per verificarlo.
Del resto, se c’è una cosa che le polemiche degli ultimi giorni, da Kim Kardashian a Elisabetta Franchi, ci mostrano è proprio il fatto che quando guardiamo a quello che succede lì sopra e lo critichiamo con tutte le ragioni per farlo, stiamo criticando il dito che indica la luna. Domani ci sarà un altro dito a indicare la luna, ma la luna, quindi la matrice di quello che ci acceca mentre ci racconta che ci sta illuminando, resterà lì.
L’avvento delle stories temo abbia conferito ai social di Mark Zuckerberg un’aurea di verosimiglianza.
“Ti faccio vedere la mia vita e te la faccio vedere in presa diretta. Quindici secondi di realtà, di autenticità, di spontaneità”. Ma siamo davvero sicuri sia così? No e lo sappiamo, ma saperlo è possibile non basti perché, quando apriamo il social, magari nel tentativo di distrarci da uno stimolo interno e/o esterno che magari vogliamo ignorare o allontanare, non abbiamo sempre il tempo di indossare la lente del pensiero critico. Anche per questo motivo sentiamo parlare di dibattito polarizzato e polarizzante.
A tal proposito, un video che ho guardato di recente che mi pare descriva bene questo meccanismo:
Slavoj Žižek: Ideology with Sunglasses
Diviene quindi indispensabile farlo prima, prevenendo il rischio di distrarsi troppo fino a pensare che quello che vediamo è sempre la realtà, una realtà chiara, mai artefatta, in nessuna delle sue componenti. Un pensiero che spesso non è un pensiero consapevole, ma una lettura che il nostro cervello dà in modo analogico e non in modo analitico. L’atteggiamento critico è il presupposto per utilizzare il mezzo liberamente, esprimendo noi stessi, senza dover necessariamente rispondere alle aspettative di chi ci segue o a quelle che costruiamo nei confronti di noi stessi, per aderire a un modello predefinito. Non si può più dire niente (e posso anche, in parte, condividere l’appunto, se contestualizzato al rischio di essere sempre e costantemente fraintesi), ma si può ancora fare quello che non si dovrebbe poter fare. È una richiesta di performance anche doversi impegnare a non scivolare mai, per nessun motivo al mondo. Discriminare mentre si assumono persone non è scivolare, ma è commettere un errore grave, sul quale lo stato ha il compito di vigilare.
Consapevolezza non è perfezionismo. Consapevolezza è soprattutto messa in discussione.
Qui di seguito, uno stralcio di un articolo di Vice:
Secondo Jane Macfarlane, art director presso l’agenzia creativa The Digital Fairy, questo stile “anti-estetico” può essere visto come la progressione naturale del photo dump fatto con noncuranza—che è sembrato fiorire all’inizio della pandemia, quando le persone si sono messe a documentare la natura quotidiana delle proprie vite. “La pratica del foto dump è diventata la premessa dell’anti-estetica,” spiega. “Ha immortalato il casino delle nostre giornate e delle nostre vite, tutto ciò che non apprezzavamo prima della pandemia. In più, serve da strumento di falsa modestia: Persino gli scarti non filtrati della mia vita sono meravigliosi.
Come vedete, anche dietro la più benevola delle intenzioni, potrebbe celarsi il tentativo di portare il nostro giudizio verso un punto preciso, imposto dall’esterno.
Non lasciamo che sia uno strumento a scegliere per noi. Scegliamo piuttosto come utilizzare lo strumento. Domandiamoci: perché ho aperto Instagram o Twitter o Facebook? Cosa sto cercando? Come mi sento? Solo a quel punto, poi, agiamo. E, mi raccomando, monitoriamo il tempo di utilizzo.