VIVA #26
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Performare
«Eurovision: Laura Pausini ha dovuto lasciare il palco per un calo di pressione»
«Il calo di pressione della Pausini e la sua assenza di 20 minuti»
«Laura Pausini scompare dal palco di Eurovision per un calo di pressione. “Scusate, troppa emozione”»
Esattamente una settimana fa la stampa italiana si svegliava e scopriva che si può star male, anche mentre si lavora, perfino in televisione, addirittura in eurovisione. Succede. Una scoperta che ha fatto un certo clamore, visti i titoloni sensazionalistici usati da alcuni e le varie teorie che hanno riempito i social in quei venti minuti di assenza. Litigio? Capriccio? Se n’è andata via? Che fine ha fatto Laura Pausini? È stato un calo di pressione, hanno spiegato il giorno dopo. Un calo di pressione dovuto al troppo lavoro e all’emozione, ci hanno tenuto a specificare. E se avesse avvertito semplicemente l’esigenza di andare in bagno? Si può andare in bagno mentre si lavora, in televisione, in diretta europea? Manco il tempo di dare una risposta a queste e altre domande che rientrano in un mio specchio più o meno ampio di curiosità, due giorni fa è arrivato un aggiornamento a riguardo: Laura Pausini ha avuto un calo di pressione, ma neanche per il troppo lavoro o per l’emozione, probabilmente aveva il Covid, visto che è attualmente risultata positiva. La motivazione è servita, il suo star male giustificato da una retorica in cui Covid batte pressione bassa nella scala della legittimazione delle malattie socialmente riconosciute. «C’era qualcosa che non andava» ha dichiarato Laura. «Non mi sentivo bene da sabato», ha aggiunto. Si è giustificata, per essere stata male. Non la sto giudicando, l’avrei fatto anche io. Probabilmente mi sarei giustificata così tante volte da oscurare quasi del tutto l’impegno e i successi di mesi di lavoro e tre dirette in eurovisione. Che poi, in effetti, è un po’ quello che è successo a lei. Non ho seguito l’Eurovision e le uniche due notizie che mi sono arrivate sono: la presunta vittoria politica dell’Ucraina — sia chiaro, per me una canzone folk che dice troverò sempre la strada di casa, anche se tutte le strade sono distrutte vince al di là del fatto che quelle strade metaforiche poi siano distrutte realmente — e il malore di Laura Pausini.
Perché ci dà così fastidio l’imprevisto? Stiamo vivendo, mai come ora, una società che ci chiede di fare: fare cose, farle bene, farle sempre meglio di qualcun altro che poi ti fregano in un attimo. Più che a fare siamo spinti a performare. L’importante è ottenere buoni risultati, meglio se prima degli altri. Una performance non è di per sé un fatto negativo, è solo la realizzazione concreta di un’attività, di un comportamento o di una situazione determinata. È, per estensione, una prestazione particolarmente valida che porta un risultato considerevole. La situazione si fa pericolosa quando una società fa della performance un valore fondante, facendola diventare l’assunto di base di una produttività frenetica e senza fine. Bisognerebbe avere la lucidità di valutare ogni performance in maniera oggettiva, come un fatto a sé stante; invece, troppo spesso una singola prestazione sotto la media diventa il pretesto per valutare l’intero operato di una persona e la persona stessa.
Essere all’altezza delle performance richieste sta diventando un imperativo categorico volto a giustificare la propria presenza al mondo: esisto perché sono in grado, ci sono perché tengo il ritmo. Cosa fai nella vita? Ottengo risultati. Poi che siano voluti o meno non importa. Chi stabilisca le mete desiderate neppure. Pare quasi che il devo abbia sostituito il voglio, camuffandosi da esso. Devi lavorare, devi fare un figlio, devi metterti in forma, devi essere felice, devi avere una rete stabile di conoscenze, devi fronteggiare l’imprevisto, devi correre, devi produrre, devi consumare. Tutti questi devi in un tempo piccolo e definito, perché devi anche essere veloce e disponibile al cambiamento. Sarà che io, certi giorni, vorrei solo stendermi a terra e fissare il cielo, ma tutti questi devi mi opprimono solo a pronunciarli. Provo a tirarmene fuori, quando riesco. Cerco continuamente di mediare tra ciò che è mio dovere e ciò che rientra invece nella sfera della volontà. Bisogna conoscersi così bene da stabilire una zona propria che sfugge al controllo della contingenza. Non è facile, ma necessario a restare interi.
È un lavoro continuo e profondo che parte dalla destrutturazione di assunti così interiorizzati da farci credere che il sé individuale sia un prodotto dell’unicità psicologica del singolo, trascurando la sua origine sociale e la contingenza storica e culturale in cui l’individuo fa esperienza. Il sé è un’entità sociale: chi siamo convinti di essere e chi vogliamo diventare non è solo frutto di aspirazioni interiori, ma dipende in larga parte dal contesto che ci circonda e dalle persone con le quali interagiamo. Quotidianamente dobbiamo mediare tra chi siamo e la rappresentazione strategica che vogliamo dare di noi nelle diverse occasioni relazionali e comunicative. Erving Goffman propone, a riguardo, il modello drammaturgico: un approccio microsociologico con cui analizzare gli scambi comunicativi interpersonali. Secondo il sociologo canadese, gli individui recitano continuamente. Le diverse istituzioni sociali, perciò, possono essere analizzate come rappresentazioni teatrali dotate di attori. La vita quotidiana è un gioco di rappresentazioni, nel quale l’identità dell’individuo coincide di volta in volta con le maschere che egli indossa mentre impersonifica ruoli particolari, cercando di creare una percezione pubblica di sé stesso che sia in conformità con i propri desideri. Le persone, per Goffman, vanno continuamente in scena, salgono sui vari palchi e provano a ottenere consensi. L’individuo è libero solo nel retroscena, dove, in assenza del pubblico, può smettere di controllare le impressioni, uscire dal personaggio e tornare a essere sé stesso — se ricorda cosa voglia dire esserlo — per aggiustare e mettere a punto le rappresentazioni che lo porteranno a indossare la prossima maschera, non appena salirà su un nuovo palco.
Che maschera bisogna indossare per performare al meglio? Probabilmente un vestito intonso che non lasci traccia dell’imperfezione. Siamo belli, veloci, realizzati, sicuri, produttivi, fino a che siamo sul palco. Facciamo i conti con la fragilità solo quando le luci si spengono e restiamo scoperti. Nascono qui molte ansie, nell’idea di non doversi mai mostrare fino in fondo per chi si è. È una recita che logora, toglie il sonno e la creatività, fino ad appiattire l’individualità a una massa di persone che fanno cose, le fanno bene, le fanno meglio di qualcun altro che può fregarle in un attimo.
Mi chiedo, di contro, si potrebbe stare al mondo seguendo solo i propri istinti più intimi e scoprendosi a tutti nudi e vulnerabili? Mi pare evidente che sia anacronistico, semmai sia esistito un tempo in cui ciò sia stato possibile, ma non credo. Il segreto per me non è essere libri aperti sempre, con tutti. La strategia serve, le interazioni sociali hanno bisogno di mediazione e devono assumere forme diverse rispetto alla contingenza. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è, a giochi fermi, avere accanto poche persone — anche una mi pare sufficiente — con cui sospendere totalmente la paura del giudizio e vivere liberi, mostrando realmente chi siamo, pregi e difetti, punti di forza e fragilità, desideri e paure. La chiave di tutto sta nel riuscire, una volta tornati nel retroscena, a spogliarci di tutto ciò che è superfluo per guardarci davvero dentro e capire chi siamo, nell’attesa di salire sul prossimo palco, più forti, meno sprovveduti.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
La società della prestazione e voli pindarici
In principio furono gli Dei e la mitologia a essi ispirata, poi arrivò l’upgrade alle religioni: puniti sì, ma con la possibilità di redimersi. Oggi, se c’è qualcosa che non dobbiamo sfidare oltrepassando le Colonne d’Ercole né concentrandoci su ciò che sarebbe più opportuno per noi, è l’algoritmo e, con lui, l’insieme di regole non scritte che conferiscono la medaglia di persone di valore. Regole mai dettate, mai scritte, mai professate, ma che tutti, in qualche modo, teniamo a mente quando passeggiamo (o sfiliamo) davanti al bar al centro del paese: i social.
Cosa sono i filtri se non la possibilità di redimersi da quanto non universalmente accettato come la norma? Ci siamo illusi quella di normalizzare potesse essere una buona idea, ma quello che abbiamo normalizzato è diventato, sì, normale, ma a scapito della varietà, della spontaneità, di ciò che è diverso, per natura e per scelta. I social, e noi con loro, hanno allargato così tanto la forbice di ciò che deve essere normale, che, ogni giorno, da queste parti, una persona si sveglia e sa che, per essere considerata “normale” dovrà fare una serie di cose, prioritarie rispetto all’andare a procacciarsi il cibo per sopravvivere. Sopravvivere non va più di moda. Per vivere bene bisogna dimostrare di saper fare.
Non basta più comportarsi da bravi cristiani per assicurarsi un posto in paradiso. Quel posto non solo te lo devi guadagnare, ma il paradiso lo devi frequentare, devi partecipare a tutti gli eventi che organizzano, goderteli, farteli piacere senza lamentarti. L’unico lamento concesso è la polemica che è l’equivalente delle offerte durante la messa. Offri la tua polemica per dimostrare che sei interessato, che ci tieni, che lo fai per il bene della comunità.
In principio furono gli Dei, poi le religioni, poi l’algoritmo e, con lui, la prestazione.
Almeno, quando a osservarci e giudicarci era solo Dio, potevi chiedergli scusa. Era uno per tutti, “Mica starà guardando proprio me mentre rubo questa bottiglia d’acqua all’Autogrill!”.
Mi capitava, quando frequentavo il Catechismo, di inventare i peccati per la confessione. Non sapevo cosa dire e credo fosse non tanto perché non avessi commesso molti considerati peccati, ma perché quei peccati io me li ero già perdonata da sola.
E fuori dai social non va meglio. C’è stato un momento preciso, nella mia vita, intorno ai dieci anni, in cui mi si è palesato davanti quello che molti oggi chiamano “maledetto capitalismo”, che onestamente mi pare un complimento alla società della prestazione. In quel momento ho pensato: devo avere quelle scarpe e quei pantaloni o a scuola non ci torno. Alla fine i pantaloni Adidas coi bottoni laterali me li comprò nonna, ma, per motivi che non so, quelli nero/bianchi, con le strisce rosse, non erano abbastanza. La carta rara erano quelli blu con la striscia e le scritte gialle. Per non parlare delle Converse versus Superga. Mia mamma mi convinse che le Superga, alle Converse, avrebbero fatto il mazzo. Ovviamente non fu quello che pensarono le mie compagne di classe, che erano già in ampio vantaggio perché non avevo mai avuto le Magnum, ma fu un grande regalo perché, qualche anno dopo, mi presi il merito d’averle rimandate io di moda, assumendomi la responsabilità di un anticonformismo che oggi mi porta a dover cercare le scarpe più particolari in circolazione perché sia mai che arrivo al matrimonio e qualcuna indossa le mie stesse scarpe. Una libertà guadagnata, quella di indossare le Superga, una persa: farmi piacere quello che piace a molti.
Insomma, come la metti la metti, il giudizio è dietro l’angolo. E saremmo ipocriti se pensassimo che questo arriva più spesso dall’esterno. Quello lo sentiamo, ma quello che arriva dal nostro dialogo interno lo ascoltiamo.
Nella città di Teheran, si sta svolgendo un censimento sulla popolazione e tutti i cittadini, vi si devono recare per certificare la loro esistenza.
Un vecchio con il nipotino, abitanti sulle montagne, in un villaggio molto lontano dalla capitale, si preparano per fare questo lungo viaggio. A disposizione hanno un solo asinello.
Pian piano si incamminano, per potersi presentare ai funzionari addetti al censimento.
Mentre il bambino è seduto sul dorso dell’asino e il vecchio gli cammina accanto, incontrano un gruppo di persone e dopo averle superate, quando queste si allontanano, il vecchio percepisce i loro commenti: “Guarda come è maleducato quel bambino, lui sta sull’asino, mentre il vecchio che ha le gambe stanche, cammina a piedi…”
Il vecchio non dice nulla, fa scendere il bambino e sale sull’asino.
Incontrano un altro gruppo di persone e dopo averle superate, di nuovo sente dei commenti: “ Guarda quell’uomo, che egoista, con un bambino così piccolo, con le gambe così corte, lui sta sull’asino e il povero bimbo, deve corrergli appresso….”
Il vecchio, non commenta, ma prende il bambino, facendolo sedere sul dorso dell’asino vicino a sé.
Incontrano un altro gruppo di persone e dopo averle superare, sente nuovamente dei commenti: “Hai visto quei due lì? Con un asinello così piccolo, gli stanno sopra entrambi, finiranno per sfiancarlo…”
Il vecchio, ancora una volta non dice nulla, ma prende il bambino per mano, scendendo dall’asino ed insieme si incamminano a piedi.
Dopo qualche chilometro incontrano ancora delle persone, che li salutano, ma mentre si allontanano, queste, commentano ridacchiando: “Avete visto quei due lì? Devono essere proprio stupidi! Hanno un asino a disposizione e vanno a piedi….”
Il vecchio non solo sente i giudizi altrui, ma li ascolta; modifica le sue scelte sulla base di quei giudizi. Fino a rendersi conto che, comunque la farà, sbaglierà.
Allora, mi domando, sarà ben più conveniente fare quello che riteniamo più giusto, opportuno, conveniente, indispensabile per noi?
Ora, sul finale di questo pezzo da intellettuale con le Superga ai piedi, consentitemi due polemiche:
1. “La capacità di lettura di oltre 11mila studenti italiani, tutti di 15 anni, è inferiore alla media dei Paesi Ocse” (OPEN)
Qualcuno attribuisce la responsabilità alla scuola, qualcun altro ai libri di testo, qualcun altro agli psicologi che diagnosticherebbero in modo superficiale disturbi dell’apprendimento.
Mi permetto un’osservazione che non ha la pretesa d’essere un’analisi sociologica: ma non sarà (pure, non solo) che quello che viene chiesto, in termini di prestazione, dentro e fuori casa, dentro e fuori scuola, dentro e fuori il campo da calcio, di basket, da tennis ecc., va oltre la possibilità di concentrarsi sul fare, al meglio delle loro possibilità, qualcosa (che forse non c’è o che non gli viene mostrato) che possa competere con quello che il mondo illude loro potrebbe bastargli?
2. “Stati generali della natalità: nel 2050 rischio 5 milioni di italiani in meno” (ANSA)
Sommessamente, domando: al netto della libertà di ognuno e ognuna di noi di non fare figli, ma non sarà che le condizioni che si devono verificare affinché si possa ipotizzare di poter garantire ai figli un futuro dignitoso si sono quadruplicate? Perché magari è prematuro pensare a come fare per pagare l’università ai figli prima di farli, ma sapere che probabilmente manco basterà non mi sembra un buon presupposto per concepire sereni.
Sul prossimo numero, prometto, ma non garantisco, di entrare nel dettaglio dei risvolti psicologici di tutto questo marasma, di come il timore del giudizio altrui (che non è, ovviamente, una colpa) sia un grande alleato dell’ansia.