Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Sindrome Italia
di Tonia Peluso
La fine del comunismo ci sembrava un sogno, pensavo alla vita che avrei avuto. C’era la miseria. Sono venuta in Italia e invece della libertà ho trovato la galera. Io sono una persona… devo chiedere permesso anche per buttare la spazzatura, devo chiedere permesso per tutto. Non è facile lavorare così. Mi chiama la badante, la rumena. A volte mi dice le parole brutte, insulti, queste cose. Io pensavo a un’altra vita più bella. Faccio sacrifici, per una vita migliore. Sa io dovevo tornare a casa, avevo biglietto, poi è venuto Covid non sono tornata, non vedo mio figlio da due anni, anche mia sorella. Se succede qualcosa, io sono in Italia. Non è facile.
Ho raccolto questo sfogo su Zoom, durante una lezione che tenevo al corso per assistenti familiari e da allora queste parole rimbombano nella mia testa.
Non è facile / Volevo una vita migliore / Se succede qualcosa.
Sono parole dure, dirette. Eppure ripenso agli occhi della donna che mi parlava, occhi forti, pieni di dignità. Occhi stanchi di chi anni fa ha iniziato un lungo viaggio verso l’Italia piena di speranze che la realtà ha poi disatteso. Una donna che si è incrinata qualche volta, lei solo sa quanto, ma è tornata in piedi per poter raccontare di un dramma che si consuma nell’indifferenza: il dramma delle donne dell’Est Europa che vengono in Italia come badanti alla ricerca di un futuro migliore di quello che anni di comunismo ha lasciato loro in destino.
Molte non sanno che troveranno condizioni di lavoro molto dure con orari disumani che nella maggior parte dei casi le vedono impegnate nell’intero arco della giornata, notte compresa. Un lavoro già estenuante aggravato da uno scarso riconoscimento economico e sociale.
Sono donne che si trovano a fronteggiare il processo d’integrazione in un Paese straniero dovendo confrontarsi con una cultura e una lingua differente, mentre combattono contro il senso di solitudine e nostalgia dei luoghi natii. Hanno abbandonato i lavori che sognavano da bambine. Hanno lasciato figli, mariti, genitori e la mancanza diventa a volte senso di colpa.
Sono donne che chiudono in valigia vestiti, fotografie da baciare la notte e l’amore che le spinge così lontane da casa per assicurare a chi resta condizioni di vita migliori. Partono assumendosi il rischio e a volte crollano, diventano vite a perdere dopo essersi spese totalmente per gli altri.
Sono le vittime della Sindrome Italia, un fenomeno medico-sociale che vede l’insorgere di sintomi ansiosi e depressivi, affaticamento, insonnia, apatia, astenia fisica e psichica e difficoltà di concentrazione tra le donne che dall’Europa dell’Est vengono in Italia per prendersi cura di anziani e disabili. Una problematica che in molti casi mostra i primi segni già durante gli anni in Italia ma che viene ignorata, perché alla scarsa considerazione per queste vite spesso è associata anche la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria. Così molte donne tornano a casa, soprattutto in Romania e Ucraina, distrutte.
L’Istituto psichiatrico Socola di Iasi ha un intero reparto dedicato in cui ogni anno sono accolte e ricoverate circa duecento donne depresse, inappetenti, ossessionate. Alcune sentono le voci, sono i ricordi di quanto hanno vissuto che ancora le tormentano. Spesso tentano il suicidio, a volte ci riescono. La terapia dura in media cinque anni in cui su queste donne grava il peso di rielaborare quello che è stato e riabituarsi a ciò che hanno lasciato: le proprie abitudini, le loro professioni, i mariti, i figli. Cinque anni per ridefinire la propria identità e rimettere insieme i pezzi. Non sempre ci riescono.
Sono donne. Sono le Cristina, le Valentina, le Dorina, le Georgeta, le Janette da cui ho imparato la forza delle donne, la grande dignità delle donne rumene.
Venerdì Milva ci ha lasciato. Mentre scrivo la sua voce che intona Bella Ciao riempie la stanza.
«Ed ogni ora, che qui passiamo
O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
Ed ogni ora, che qui passiamo
Noi perdiam la gioventù
Ma verrà un giorno che tutte quante
O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao
Ma verrà un giorno che tutte quante
Lavoreremo in libertà »
Con la speranza che non ci sia più alcun padrone, né in risaia, né nelle case dei nostri genitori, perché l’Italia che quel 25 aprile si liberò dall’oppressore non sia mai più sindrome che uccide.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Stesso mare, barche diverse
di Arianna Capulli
Ben trovati. Sono qui per portarvi al bar, senza che si possa andare al bar, almeno fino a domani, in zona gialla, almeno dove c’è il sole, almeno dove non fa freddo né piove e se i bar, nel frattempo, non hanno dovuto chiudere.
Sono qui, di nuovo, per aggiornarvi sulle polemiche della settimana, ammettendo che il fatto stesso di tirare in ballo le polemiche fa di me una persona polemica, ma almeno io lo riconosco.
“Almeno io lo riconosco” è un buon modo per anticipare le critiche, lo consiglio.
Se pensate che l’argomento della settimana sia stato il video di Beppe Grillo, quindi la politica, siete fin troppo ottimisti.
In questi giorni, su Twitter, abbiamo assistito alla crème de la crème della querelle.
Per chi non dovesse avere dimestichezza con lo strumento, vorrei raccontarvi di come un tempo lì sopra fosse tutta campagna e silenzi leccati, sospiri odorati, pittori sordi che dipingevano su tele bianche il rumore di un petalo di rosa che cadeva sul pavimento di cristallo di un castello mai esistito. Vorrei raccontarvelo, sì, ma sono convinta che se pure lo facessi non riuscirei comunque a rendere l’idea.
Lo riassumerò così: due squadre, i poeti e i battutisti, anche al femminile. Ci si incontrava, si facevano i #TweetRaduni, talvolta ci si accoppiava e, per esperienza personale, perfino le corna avevano a che fare con Twitter. Era come un paese, un grande paese, in cui tutti però si conoscevano, tutti sapevano. Quando la psicoterapeuta mi chiese: “Ma cos’è che più ti fa male dell’esser stata tradita”, sono certa d’aver risposto “Lo sapevano tutti su Twitter”
Cos’è successo poi? È successo che quelli che facevano ridere sono stati assunti come Social Media Manager di grandi aziende, quelli che facevano sognare come autori televisivi, altri sono diventati influencer a tempo pieno. Se dovessi individuare il punto in cui Twitter è passato dall’essere il paese di provincia all’essere il bar del paese di provincia, direi EXPO Milano 2015. Non fatevi troppe domande.
Fin qui, ci sono almeno tre errori, che solo i più polemici di voi avranno individuato, o i più giovani, sempre che le due cose non siano sempre più destinate a coincidere, ammesso che questo non sia un bene per la società.
- “Anche al femminile”
- “Provincia”
- “Il video di Beppe Grillo è politica”
Provincia? Sì, provincia. Provincia non si può dire, non è rispettoso nei riguardi di chi abita in provincia perché è chiaro che l’utilizzo del termine abbia un intento denigratorio, l’ho letto su Twitter.
Ma non è tutto. Non potete essere felici di tornare al ristorante con i vostri amici perché, riporto fedelmente un tweet “Smettetela di normalizzare il fatto che si debba o si voglia per forza uscire la sera, che si abbiano degli amici e delle possibilità, smettetela di far sentire sbagliatx chi non lo fa”.
Ora, mi trovo in un cul-de-sac, espressione che a Voltaire non piaceva (Fonte: Treccani Online).
Se io ora commentassi quel tweet che vi ho riportato in corsivo, starei criticando, quindi non rispettando, l’opinione di qualcuno che esprime, a sua volta, disaccordo con l’opinione, l’atteggiamento, le esigenze di qualcun altro. Starei praticamente dicendo che il fumo fa male, con la sigaretta accesa.
Cos’è che si può dire quindi?
Non si può dire più niente, direte voi.
Invece no, il problema è un altro, e la doppia negazione lo anticipa: si può dire tutto e il contrario di tutto; qualunque cosa si dica, esistono infiniti scenari polemici possibili.
Da quanto tempo non sentite qualcuno dire “La penso come te”?
Tornando a noi: questa la chiami polemica?
Ma no, questo è l’antipasto.
Ieri, al bar del paese di provincia, è arrivata la comitiva del bar del paese limitrofo, più popolato, che chiameremo, per convenienza, TikTok.
Sono arrivati e, quando hanno scoperto che il prosecchino non se lo potevano fare, si sono detti “I tempi sono maturi per la polemica delle polemiche: la SuperLega.”
Vabbè ma quello è un fatto vero, la dimostrazione che il capitalismo si sta mangiando anche lo sport. Certo, ma siccome qui siamo in provincia la SuperLega l’abbiamo fatta con le facoltà universitarie.
“La facoltà di ingegneria, in tutte le sue forme, è più impegnativa di tutte le altre facoltà, soprattutto quelle umanistiche”.
- Stai dicendo che le altre facoltà non valgono nulla? Come ti permetti, studentessa al primo anno di ingegneria, di dire che la mia laurea in sociologia presa ottantasette anni fa non vale niente?
- Lo vedi che non capisci, ma non avevo dubbi, frequenti filosofia.
- (Arrivano i filosofi) La filosofia è la matematica del pensiero. (L’ho letto davvero)
- (Arrivano gli storici) Se non c’è storia non c’è matematica, letteratura, geografia, filosofia e qualunque altra disciplina. (Anche questo)
- Vabbè, ma tanto dipende dal liceo che hai fatto. Chi ha fatto il classico ha una marcia in più.
Inizia la polemica sul liceo classico. “Chi ha fatto il liceo classico ha una marcia in più”.
Il bello delle polemiche su Twitter è che arrivano, finiscono, ma poi tornano, come gli amori di Venditti. I giovani d’oggi sono molto attenti a una serie di questioni importanti. Sono attivisti, sono impegnati a difendere tante di quelle cose che fatico a stargli dietro. Li ammiro molto, ma a volte mi permetto di avere dei dubbi sulle modalità, poiché temo che ci sia confusione sulle parole confronto e dibattito, a vantaggio del vero male contemporaneo: l’assoluto.
Che il patriarcato fosse dannoso l’ho scoperto in terapia, a mie spese.
Ne pagavo già le conseguenze, ma non lo conoscevo davvero.
Altra polemica della settimana: il corpo di Valentina Ferragni. Lei pubblica una sua foto in costume, qualcuno commenta “Finalmente una che si mostra con le curve”. Parte la giostra. “Cioè, ma vi rendete conto che il problema è che pensate quelle siano curve?”, “Valentina ha un corpo normalissimo, se parlate di coraggio state implicitamente normalizzando la magrezza di Kate Moss, forse soffrite di dismorfismo corporeo”.
Leggo questo tweet e mi trattengo dal commentare: “Ti rendi conto che se utilizzi un disagio psicologico come insulto stai stigmatizzando la malattia mentale?”.
Faccio marcia indietro e penso che, ancora una volta, stiamo facendo una guerra contro il nemico sbagliato. Mi viene il dubbio che, se questa foto di un corpo normale fa scalpore, magari è perché culturalmente siamo abituati a vedere altro, o l’opposto di altro. Che significa normalizzare? Forse abbiamo frainteso.
Fatto sta che la polemica fa così tanto il giro del web che alla fine penso “Valentì, la prossima volta fatti più magra con un’applicazione, così evitiamo tutta ‘sta giostra.”
Che peccato.
Il terrore mi pervade, penso che se mai avrò dei figli, quando saranno adolescenti, penseranno quello che penso io di chi vota Salvini quando mi sentiranno dire che andavo al cinema a vedere i Cinepattoni. “Mercificazione del corpo della donna, cara mamma. Non capite niente voi (termine che sostituirà boomers, ma più offensivo).”
Magari prendo tempo.
Sospetto che quello che chiamiamo “dibattito pubblico” sia il becero tentativo mascherato da evoluzione, di annullare qualunque forma di pensiero che non vada nella direzione del pensiero unico, di ciò che è giusto pensare. Ma cos’è giusto pensare? Quanti di voi hanno avuto un pensiero divergente rispetto alla media, in merito a qualcosa e, il secondo dopo, hanno pensato “Questo non lo scrivo, altrimenti mi tocca discutere”? Quanti di quelli che scrivono su Facebook che è giusto che muoiano le persone in mare lo fanno perché ci credono davvero e quanti invece lo scrivono perché è quello che ci si aspetterebbe da loro? Difendono davvero dei valori, o sono solo coerenti coi propri ideali? Me lo chiedo spesso, senza riuscire a trovare risposta.
Quando guardo alcuni programmi in TV, mio marito, spesso, cambia canale. Ogni volta, minaccio il divorzio mentre urlo che voglio ascoltare anche chi non la pensa come me.
Perché fatichiamo così tanto ad accettare che siamo tutti sulla stessa barca manco per niente? Perché non riusciamo a vedere che navighiamo tutti lo stesso mare, ma su imbarcazioni differenti?
Vengo spesso additata di esser diventata individualista, per via della mia professione. Come posso pensare di non esserlo? Il gruppo è più della somma delle singole parti. Il gruppo è polemica, ma dentro questa polemica, le singole parti, spesso, spariscono.
E se le singole parti spariscono, siamo nei guai.