Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Aule Covid
di Tonia Peluso
L’altro giorno è successa una cosa che mi ha lasciata perplessa. Mio nipote, sei anni, ha lamentato a scuola un mal di pancia attivando subito il protocollo che segue:
a. chiamata a casa al genitore
b. il bambino portato in Aula Covid
Mio nipote il Covid lo ha avuto per davvero, in un tempo così recente da essere quasi del tutto impossibile un nuovo contagio. È rientrato a scuola dopo un mese con certificato medico e tampone negativo il 26 di aprile, quattro giorni prima che ipotizzassero fosse nuovamente positivo. Mia sorella lo ha trovato seduto a ridosso della parete in una stanza che ha scoperto poi chiamarsi Aula Covid, ma che con buona probabilità, data la presenza di armadietti e scatoloni ammassati, doveva essere una sorta di ripostiglio prestato all’occasione. Non era solo, c’erano altri tre bambini sorvegliati da una maestra, referente covid, che però intanto si faceva i fatti suoi senza spiegare cosa stesse succedendo, senza preoccuparsi di intrattenerli in qualche modo, lasciandoli muti nei loro pensieri da bambini che si sono sentiti dire di aspettare la mamma in aula covid.
A sei anni si è ancora troppo piccoli per capire realmente cosa sta succedendo, ma già abbastanza grandi da intuire che quella situazione è di potenziale pericolo. A sei anni se nessuno si accovaccia sulle gambe a spiegarti la realtà con parole semplici rischi di finire a piangere su una sedia addossata alla parete nell’attesa che la mamma, il papà o Gattoboy vengano a tirarti fuori da quel casino.
E infatti mia sorella lo ha trovato così: piangendo su una sedia su cui diceva di non riuscire a stare, in preda alla paura totale di essersi beccato il covid di nuovo, dopo un mese passato chiuso in casa e tutta la paura di quei giorni che di tanto in tanto ancora si materializza nei sogni in cui la mamma muore, lui resta solo e deve dare da mangiare alla sorellina ma non sa cucinare.
A sei anni hai abbastanza fantasia per trasformare la paura nello scenario più catastrofico possibile. E a dire il vero mio nipote è anche abbastanza melodrammatico.
L’ho riportato su Twitter. Non per fare polemica, per confrontarmi, per aprire un dibattito. Ho scritto:
Diverse le reazioni.
C’è chi ha solidarizzato, chi ha colto l’occasione per innescare un dialogo costruttivo, chi di pancia ha proposto di prendersela con le maestre (povere maestre). Questa la compagine che mi ha accolto e compresa. Ma Twitter non è bello se non è litigarello e infatti poco dopo hanno pensato che fosse necessario dare il proprio contributo esponenti di fazioni curiose.
Sono arrivati per primiquelli che lo sanno: non importa di cosa si stia parlando loro lo sanno e devono dirtelo che sei una scema ad aver scoperto ora le Aule Covid che invece già esistevano. Grazie, vostro è il regno dell’informazione passivo aggressiva.
Quasi in contemporanea hanno fatto capolinea gli immancabili malfidati che stanno al mondo convinti che sia tutto un gigantesco tcrai (Tweet Che Riportano Aneddoti Inventati). Tu racconti una cosa e loro sono disposti a giurare che te la sei inventata, non importa cosa, stai mentendo perché vuoi i like. Scritto da profili pubblici, su un social che si basa su parole, retweet e like. Se non volessi i like scriverei un diario segreto, signori della corte.
E infinesono sopraggiuntii miopi a sostenere il fatto che ci siano emergenze impellenti a cui pensare, che poi guarda caso sono quelle più vicine alle loro necessità.
I miopi non vedono oltre, pensano che si debba lavorare su un solo problema alla volta.
«Stiamo vivendo una pandemia, te ne sei accorta?»
Sì, me ne sono accorta. Perciò mi pongo delle domande, oppure me ne starei tutto il giorno distesa in terrazza con lo sguardo fisso al cielo. Mi dà senso di pace solo a pensarlo.
«Le terapie intensive sono piene»
Mi dispiace. Ma il dirigente scolastico della scuola di mio nipote sicuro non ci lavora, quindi può pensare a far bene ciò che gli compete mentre i medici fanno il loro.
«Ci sono i morti»
Vero. Ma ci sono anche i vivi. E io un po’ ai vivi ci penserei, soprattutto se sono in fase evolutiva.
«Io a scuola prendevo le bacchettate sulle mani e tu pretendi i disegnini alle pareti»
Infatti lo abbiamo visto come sei cresciuto bene. Avrai partecipato al PON “Tecniche e teorie per coltivare il proprio orticello ignaro di quello che ti succede intorno”.
I miopi non dicono cose false, ma non hanno la lungimiranza di vedere che oltre i loro bisogni immediati c’è tutto un mondo che non può essere etichettato come meno importante. I miopi non capiscono che se viviamo nell’ottica dell’emergenza ci sarà sempre un’emergenza più emergenza di altre. Non parliamo delle scuole perché ci sono le terapie intensive piene. Allora io dico non parliamo delle terapie intensive piene perché ci sono villaggi nel mondo che non hanno le terapie intensive, né i tamponi, né il Deltacortene. Non hanno neanche l’acqua. Ma davvero vogliamo metterci a fare la scala di priorità su chi sta peggio? I miopi si sono arresi e stanno li ad annaspare nella loro mediocrità coprendosi gli squarci sui vestiti con i brandelli di pelle di chi sta messo peggio. Non prospettano un cambiamento perché sanno in fondo che in una società che funziona loro non potrebbero più sentirsi primi.
Le aule covid esistono dall’inizio dell’anno scolastico. È vero. E io non l’ho scoperto ora, come han detto quelli che lo sanno. L’ho esperito ora. Sono stata miope anche io. Ho pensato a problemi a me più vicini, finché non ci è finito mio nipote. C’è sempre un’emergenza più emergenza a cui pensare, ma io a differenza dei miopi ne ho cognizione.
Sono state introdotte con il Protocollo d’intesa per garantire l’avvio dell’anno scolastico nel rispetto delle regole di sicurezza per il contenimento della diffusione di covid 19 del 6 agosto 2020. Secondo l’Art.7 sulle Disposizioni relative alla gestione di una persona sintomatica all’interno dell’istituto scolastico:
In caso di comparsa a scuola in un operatore o in uno studente di sintomi suggestivi di una diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 la persona interessata dovrà essere immediatamente isolata e dotata di mascherina chirurgica, e si dovrà provvedere al ritorno, quanto prima possibile, al proprio domicilio, per poi seguire il percorso già previsto dalla norma vigente per la gestione di qualsiasi caso sospetto
Dovrà essere isolato. Necessario. Ma non specifica come e dove dovrà essere isolato, lasciando le modalità a discrezione dei dirigenti scolastici. E qui nasce l’intoppo. Qui nascono gli sgabuzzini adibiti a Aula Covid e prendono vita i collaboratori scolastici che si permettono di urlare a un bambino di sei anni «Poooooneeee in auuulaaaa covid».
Questo è il momento in cui viene fuori in tutta la sua violenza un problema vecchio:siamo un Paese che raramente ha rispetto per i bambini e li considera persone in grado di ascoltare, capire, rielaborare, avere paura. I bambini sono spesso dimenticati, fino a quando non saranno adolescenti da additare come problematici e poi adulti su cui si dirà i genitori non hanno fatto un buon lavoro da piccoli. Lavandosene completamente le mani.
Come se quei piccoli marmocchi di un metro e venti, spesso petulanti, vivaci anche troppo, non fossero gli adulti di domani a cui dovremmo lasciare una società migliore, a partire da come ci rivolgiamo a loro oggi.
Le Aule Covid sono imposte dal momento storico che stiamo vivendo. Le narrazioni che le accompagnano però possono fare la differenza.
È davvero necessario dover dire a un bambino « Vai in aula Covid » ? Toglierebbe risorse ai medici e agli infermieri che lavorano nelle terapie intensive chiamarle semplicemente Sale di attesa, Aula Relax, Aula Riposo? Quanto potrebbe mai essere oneroso mettere in queste aule un materassino, un banco, delle pareti colorate, due giochi da disinfettare dopo ogni accesso? Sono domande retoriche. La risposta è che serve umanità e rispetto. Soprattutto per i marmocchi di un metro e venti.
Costruire gli spazi dei bambini a misura dei bambini è possibile e non toglie niente a nessuno:l’attenzione al benessere psico-fisico non è a somma zero, basta fare bene ognuno il proprio, senza rifugiarsi dietro la scusante di chi sta peggio. Del resto l’attenzione alla salute e il supporto psicologico per il personale scolastico e per gli studenti rappresenta una misura di prevenzione precauzionale indispensabile per una corretta gestione dell’anno scolastico, come si legge nello stesso protocollo con cui sono introdotte le Aule Covid.
Si può fare bene. Si deve fare bene.
«Io sono una maestra, referente covid in una scuola primaria. È obbligatorio da ministero avere una “stanza covid”. Da noi di chiama aula tranquilla e c’è un disegnino di una persona che si rilassa sulla porta. Dentro ci sono materassoni per sdraiarsi (in caso qualcuno si senta male) una panchina e una sedia per un adulto. Perché non si può assolutamente lasciare da solo un bambino che sta male mentre aspetta i suoi genitori o chi lo verrà a prendere.» così scrive @luanalubamba sotto il tweet da cui ha origine questa riflessione.
Non la conosco, ma mi segue. Le scrivo in privato. Mi dice che si chiama Luana Mitrano e insegna in un istituto comprensivo che va dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado a Calderara di Reno, in provincia di Bologna. È una referente covid.
«Mi sembrava doveroso spiegare che la stanza covid è un obbligo imposto, ma renderla a misura di bambino è un obbligo da insegnante ed educatrice. A inizio anno ci siamo viste tra referenti covid e dirigente e abbiamo deciso come impostare questa stanza» ci tiene ad aggiungere.
Chiacchieriamo un po’, le faccio qualche domanda. Mi manda due foto della sua aula tranquilla, mi commuovo: basta davvero poco.
Sono foto semplici, ma che raccontano una normalità che a volte viene fatta passare per inutile pretesa. E invece è solo considerare che dentro l’emergenza ci sono persone, bambini, di cui aver cura.
«Mi fa piacere dimostrare che la scuola può anche funzionare! Ci tengo anch’io a fare vedere che si può, che non è impossibile e che dire il contrario è arrendersi», conclude Luana.
Vi saluto con le sue parole ricche di speranza.
Sotto il protocollo del 6 agosto 2021 in versione integrale
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Il peso del peso
di Arianna Capulli
Si può ancora parlare di corpo senza che qualcuno evidenzi che si tratta di bodyshaming?
Si può ancora parlare di nutrizione senza offendere qualcuno?
Posso parlare della mia alimentazione senza che qualcuno pensi io ne sia ossessionata? Posso farlo senza che qualcuno mi dica che sono grassofobica?
Non lo so. Vi dico la verità.
O meglio, sono sicura si possa fare efficacemente, ma sono meno ottimista sulle eventuali reazioni. Vi parlo, come sempre, come fossimo al bar. Facile così, direte, non possiamo rispondere. Invece potete farlo: viva.lanewsletter@gmail.com
Si rende necessario fare una premessa: non esiste, mai, qualcosa di giusto e/o sbagliato per tutti. Esiste quello che è giusto e/o sbagliato per noi, noi che abitiamo il nostro corpo, lo percepiamo, lo mostriamo, chi più e chi meno, lo amiamo, lo odiamo, lo disprezziamo, lo adoriamo, lo critichiamo, lo apprezziamo, lo trattiamo male, bene, così e così. Il nostro corpo col quale siamo liberi di fare quello che vogliamo.
politicamente corretto
locuzione
1. aggettivo
Di condotta, comportamento, modo di dire improntato al pieno rispetto dell’identitàpolitica, etnica, religiosa, sessuale, sociale,ecc. di altri soggetti
(Incluso chi parla, aggiungo io)
Quando ero una studentessa, al primo anno di psicologia, ero una grande appassionata degli studi che venivano citati a supporto delle teorie. La mia preferita è quella alla quale penso quando leggo “Smettetela di parlare di nutrizione sui social”.
Gli studenti di psicologia lo sanno: Alameda non è un’azienda che produce rasoi.
Nel 1965, nella Contea di Alameda, in California, venne avviata un’indagine volta allo studio delle possibili correlazioni tra lo stile di vita e la salute. La ricerca ha interessato un campione di 6.928 persone, di età compresa tra i 20 e i 94 anni; l’indagine, definita longitudinale perché protratta nel tempo, venne replicata mediante due follow-up, nel 1970 e nel 1974. I ricercatori individuarono 7 abitudini, comportamenti, che ipotizzavano fossero rilevanti per la salute delle persone coinvolte (health habits): dormire 7/8 ore al giorno; fare colazione tutti i giorni; non consumare mai (o raramente) cibi fuori pasto; mantenere il peso uguale o vicino a quello ideale; non consumare alcolici (o farlo moderatamente); non fumare; fare attività fisica regolarmente. I primi risultati mostrarono che chi praticava tutte (o quasi) le sette abitudini salutari, si trovava in condizioni di salute relativamente migliori (indipendentemente dall’età, dal sesso e dallo status sociale). Dopo 5 anni, al primo follow-up, la probabilità di sopravvivenza risultava proporzionale al numero di abitudini praticate. Al secondo follow up, il tasso di mortalità tra coloro che praticavano tutte e sette le abitudini salutari, era inferiore a chi ne aveva praticate meno di quattro.
Uno studio di Ford et al., del 2009, svoltosi nella città tedesca di Potsdam, ha interessato 27.548 persone, di età compresa tra i 35 e i 65 anni, contattate a intervalli regolari dal 1994 al 2006. Sono state prese in esame 4 abitudini su tutte: non fumare; mantenere un peso uguale o vicino a quello ideale (indice di massa corporea < 30); praticare attività fisica regolarmente (almeno 3 ore e mezzo settimanali) e seguire un sano regime alimentare (calcolato sul consumo medio giornaliero di verdura, frutta, pane integrale e carni rosse). La probabilità di ammalarsi di alcune patologie (diabete, infarto miocardico, ictus e tumori), registrata tra coloro che praticavano le abitudini sopra elencate, era assai inferiore a quella registrata per le persone che praticavano nessuno di quei comportamenti.
Ora, se è vero che il concetto di salute si è ampliato nel tempo e che, per questo, la salute non è l’antitesi della malattia, quindi la presenza di una condizione di patologia non si traduce necessariamente in malessere, è altrettanto vero che sarebbe, a mio avviso, oltremodo sciocco sostenere che “poiché dobbiamo prevenire l’incidenza dell’anoressia nervosa, dobbiamo evitare di parlare di nutrizione, ignorando le indicazioni di chi si occupa di prevenzione e tutela della salute”.
Non siamo poco in salute quando ci prendiamo cura della nostra alimentazione quindi del nostro corpo, ma quando non lo facciamo o lo facciamo in modo sbagliato. Qual è il modo sbagliato? In tal senso, l’obiettivo assume rilevanza.
Perché sono interessata/o a mantenere il mio peso ideale? Qualunque sia la motivazione, comunque meritevole d’esser rispettata, è preferibile abbia due caratteristiche, su tutte:
– sia una scelta consapevole
– sia orientata alla salute
Quando ho deciso di rivolgermi a una bio-nutrizionista sussistevano queste due condizioni, ma soprattutto ero pronta per farlo. Il lockdown, la possibilità di consumare i pasti in casa, la serenità mentale acquisita e una serie di altre condizioni favorevoli, mi hanno permesso di abbandonare abitudini alimentari malsane, che magari non si vedevano in spiaggia, ma se facevo un’ecografia all’addome.
Parlandone ho incontrato reazioni diverse, che vanno dal “Ma tu? Ma non ne hai bisogno” al “Se tu devi fare la dieta, pensa io” e ancora “Ma non ti vergogni a dirlo davanti a chi ha un corpo diverso dal tuo?” fino alla più contraddittoria “Per fortuna che fai la psicologa…”
Che sarebbe come dire “Non ti vergogni di dire che hai smesso di rubare davanti a uno che ruba?” oppure, forse più calzante “Non ti vergogni di dire che hai smesso di fumare davanti a uno che fuma?”. E cosa dovrei fare, accendermi una sigaretta per fargli compagnia? Fare finta che non ho mai fumato?
Il comportamento alimentare è solo in parte determinato da fattori biologici; le credenze dell’individuo, così come la cultura d’appartenenza e l’ambiente fisico e sociale, assumono grande rilevanza.
Di nutrizione è bene parlarne, nella misura in cui ritengo sia bene ribadire, alla luce delle considerazioni fatte, che si può prendersi cura di se stessi, del proprio sistema mente-corpo e lo si può fare intervenendo proprio sui fattori determinanti: le credenze sul cibo e/o sul proprio corpo; il proprio stile di vita; la cultura e l’ambiente, che non possiamo cambiare come singoli, ma possiamo intervenire sull’interazione con essi. È possibile farlo in autonomia o chiedendo aiuto a un professionista.
Quello che sta succedendo, a parer mio, è che si sta privilegiando l’intervento sulla cultura a discapito del resto, su cui sarebbe opportuno agire (o non agire) in parallelo.
Provare a ribaltare il paradigma è un intento nobile, ma non basterà la modella taglia 44 a modificare i comportamenti disfunzionale in relazioni al cibo e/o al proprio corpo.
Come spesso accade, il motivo è da rintracciarsi nella polarizzazione delle opinioni e nell’abitudine a trascurare le diversità; non solo le diversità in relazione ai corpi, a ciò che percepiamo alla vista, ma quelle relative alle vedute, alle letture, ai significati, alle emozioni, ai comportamenti individuali, agli stili di vita, alle abitudini, alle possibilità.
Spesso mi chiedono: “Dottoressa, ma è una colpa volersi migliorare?”. No, non lo è, purché l’obiettivo sia personale, realistico, salutare.
Così come non è una colpa scegliere di non farlo.
L’importante è che lo si scelga, che non vi sia qualcosa che lo impedisce, che arrivi dall’interno o dall’esterno.
L’educazione affettiva, sessuale, ma anche quella alimentare, nell’ottica della prevenzione, dovrebbero essere tradotte in programmi validati, attuati in età scolare.
Se avete superato l’età scolare, come me, potete iniziare giocando a mettere voi, per una volta, un filtro a Instagram quando, per qualche minuto, credete davvero che una barretta di non so cosa a un prezzo che varia dai 3 ai 7 Euro possa trasformarvi nella modella che ve la sta sponsorizzando. Non me ne voglia la modella, ma tanto non ci crede neanche lei.