Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
2006
di Arianna Capulli
Loro non sanno di che parlo
Voi siete sporchi, fra', di fango
Giallo di siga fra le dita
Io con la siga camminando
Scusami, ma ci credo tanto
Che posso fare questo salto
E anche se la strada è in salita
Per questo ora mi sto allenandoManeskin - Zitti e buoni
I Maneskin vincono l’Eurovision Song Contest.
Per la prima volta scopro il meccanismo per assegnare la vittoria e lo trovo una bella metafora di politica estera, un altro modo per darsi le testate in finale.
Francia, Svizzera e Italia. Svizzera, Francia e Italia.
Italia, Svizzera, Francia, dice la classifica finale.
Dalle strade di Roma al tetto d’Europa, i Maneskin, portano letteralmente il Contest in Italia.
Dopo tanti mesi siamo di nuovo compatti e, per la seconda volta in pochi mesi (vedi Sanremo), quello che ci consente di remare nella stessa direzione è la musica, l’arte.
Per qualche ora le polemiche interne si placano e lasciano spazio alla più grande metafora di politica estera: i paesi «amici» e quelli inglobati nel territorio nazionale, per mezzo delle loro giurie di qualità, negano all’Italia i 12 punti; il massimo dei punti arrivano da Slovenia, Ucraina, Croazia e Georgia.
Dieci punti per l’Italia sono arrivati anche dalla Macedonia del Nord e dalla Bulgaria, dalla Russia, dalla Lituania e dalla Svezia.
Israele, Malta, Azerbaijan, Spagna, Regno Unito, Francia, Moldavia, Olanda e Danimarca non hanno assegnato invece nessun punto all'Italia.
Dall’Italia non puoi votare l’Italia perché sarebbe troppo facile; devi stare attento a non votare chi potrebbe giocarsi il primato con te, leggasi Francia.
Nessuno assegna punti al Regno Unito, che chiude con 0 punti, tra giurie e televoto (il cui punteggio è una media ponderata sul totale dei voti).
Finalmente ci troviamo davanti a numeri che non significano tragedia; finalmente una gara alla quale siamo felici di prendere parte.
“Rispondiamo alla Francia che accusa Damiano d’aver assunto cocaina in eurovisione con le foto dei topi sotto la Tour Eiffel”, il tweet più bello che ho letto nelle ultime ore.
Nel gruppo del quartiere dove i Maneskin sono cresciuti, che è anche il mio, c’è chi si forgia d’aver servito uno di loro al banco gastronomia. La canzone della Francia, ora che non ha vinto, suona davvero come una bella canzone. Provo a scriverlo, mi rispondono con un’immagine di Damiano che mostra i gioielli di famiglia.
Ricordiamocela questa serata quando ci chiederanno, tra le altre cose: “Come avete fatto a sopravvivere in quel periodo?”
Tifando insieme.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Malinconia
di Tonia Peluso
Ieri ho scritto su WhatsApp a una mia amica «Dimmi cinque cose che ti mancano di Napoli da quando vivi a Genova».
Così di botto, alle 22:44, non ci sentivamo da qualche giorno. Lei vive a Genova da sette anni.
Mi conosce abbastanza bene da sapere che non ho perso il lume della ragione (o almeno questo non rappresenta un fatto nuovo). Mi ha scritto:
Sono le risposte che mi aspettavo, nulla di più, nulla di meno. Il caffè, che da bevanda diventa rito, il cielo terso, gli affetti. Sono le cose che mancherebbero a me se dovessi andare via da Portici (il periodo ipotetico cela una decisione in realtà già presa ma ancora non implementata né comunicata perché nella vita mi riservo il privilegio di poter cambiare idea all’ultimo senza la pressione di doverne poi rendere conto). Mi mancherebbe il mare.
Io il mare ce l’ho sotto casa, ma non posso andarci perché non tutto il mare è mare davvero. Così mi metto in auto, arrivo in costiera, quaranta minuti senza traffico, anche il triplo nei giorni più affollati. I lidi che mi piacciono: trenta euro a lettino, prenotazione almeno due giorni prima, nel week-end ad agosto non ci sperare. Però io il mare in effetti lo ho sotto casa. E quando penso di andare via da Portici, penso che mi mancherebbe il mare, tornare a casa in costume e con i piedi sporchi di sabbia. Che è una cosa che ho fatto spesso, in vacanza, non a Portici cinquantatremila abitanti. Eppure mi pare di averlo fatto a casa mia, una casa dai confini indefiniti che si allargano e restringono di volta in volta in base a ciò che mi fa comodo infilarci.
Ci sono azioni che associ a una quotidianità che nella realtà non esiste, è pura rappresentazione di come le cose dovrebbero andare, nel migliore dei mondi possibili. È l’utopia che la malinconia fa sembrare realtà.
È un sentimento strano la malinconia, si fa spazio, ti confonde. Ti fa sembrare necessarie le cose che fino a ieri hai odiato: il traffico, una mentalità che senti da sempre distante, la tendenza ad accontentarsi di una vita piatta che tanto teniamo il mare, il sole, la musica, il buon cuore dei napoletani. Ti fa venire su la paura che ti mancheranno proprio quelle robe da cui conti di scappare, non quelle che ti mancheranno davvero, non le solite liste di affetti e cielo terso che fa chi ormai, come la mia amica, è andato via e manco ha intenzione di tornare. Hai paura che un giorno ti mancherà stendere i panni ad asciugare al sole fuori dal balcone, anche se l’asciugatrice ti pare al momento la soluzione a gran parte dei tuoi problemi.
Nun lassà ‘a via vecchia p”a via nova, ca saje chello ca lasse e nun saje chello ca truove! , dice un vecchio detto napoletano. Avrei potuto tradurlo, ma la malinconia passa anche dalla rivalorizzazione del dialetto. Sai quello che lasci — sai anche perché lo lasci — non sai ciò che trovi — o almeno lo sai in parte, con il timore che non basti. Lo immagini, ma l’immaginazione è una compagna insidiosa. Rende reali mille mondi possibili, giorni ancora da scrivere, giorni passati che il ricordo distoglie.
Bauman in un uno dei suoi ultimi lavori definisce Retrotopia la condizione dell’uomo occidentale: un uomo che, incapace di guardare al futuro con speranza e fiducia, preferisce volgersi al passato, annegando le paure in un tempo che a volte non ha neanche realmente vissuto.
In una società che ha fatto dell’incertezza un valore imposto e necessario, la malinconia è forse una certezza. Non cambia, un sentimento eterno, da Alessandro Magno a Tonia da Portici — scusate il paragone tra personalità leggermente azzardato. Cambiano però i significati che socialmente le sono stati attribuiti. Ora la malinconia è intesa quasi sempre come nostalgia, tristezza, che si accompagna a un senso di inappagamento. Nella medicina ippocratica invece, era uno dei quattro umori che costituiscono la natura del corpo umano, per la precisione quello della bile nera, che è la base per qualsiasi tipo di azione. Non impotenza, non impasse biografica, la malinconia è il sentimento che accompagna l’azione e spinge a profonda riflessione. Non esistono grandi cambiamenti senza malinconia.
La verità è che molti siamo cresciuti male, legati a ciò che abbiamo, miopi verso chi siamo. Figli del senso di colpa, nipoti dello spirito di sacrificio, abbiamo imparato a essere grati per il pane quotidiano. Poco spazio per i sogni, le inclinazioni, la possibilità di sperimentare un percorso biografico che si discosta dalle fasi socialmente designate. I vecchi ci hanno lasciato in eredità il desiderio di morire a casa nostra. Ma perché pensare alla morte, se abbiamo davanti la vita.
«Sei troppo intelligente per cadere nel nostalgico», mi ha scritto ancora la mia amica.
Indice destro sullo schermo, evidenzia come messaggio importante.
Lo rileggerò nei mesi a venire e quando mi mancherà davvero il mare scapperò a casa sua, che tanto a Genova lei lo ha il mare.