Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Survival of the fittest
di Arianna Capulli
Sono andata alle poste e avevo cento persone davanti, quindi ho scaricato la App e preso appuntamento per il giorno dopo. Il giorno dopo, due minuti prima del mio rispettato appuntamento, iniziava la rivoluzione.
C’erano ancora molte persone in attesa e due soli sportelli aperti; un anziano signore, seduto di fianco a dove io ballavo sul posto dall’impazienza, mi chiede:
“A che ora ha l’appuntamento?”
“Alle 11.00”, faccio io.
“Io devo aspettare qui solo perché non so come si fa a prenderlo. Non lo trovo giusto.”
“Ha ragione”, l’unica risposta che sono riuscita a dare.
Nel frattempo chiamano il nostro numero, alle 11.00 in punto.
“Menomale”, penso, “Non ho tempo da perdere qui, devo tornare a casa, mangiare, lavorare, occuparmi di stare bene, godermi questa settimana di ferie trascorsa a far visite e a sbrigare faccende che altrimenti non potrei sbrigare”.
Dobbiamo fare un’operazione complessa; occupiamo uno dei due sportelli attivi per almeno 40 minuti. Le parole dell’anziano signore col gilet beige e il cappello arancione risuonano nella mia testa. Mi giro, è ancora lì, seduto, che si guarda intorno, mentre altri protestano. Noi invece abbiamo finito, usciamo di corsa, saliamo in macchina e ce ne andiamo.
Racconto quello che è successo su Twitter. “Oggi una persona anziana alle poste mi ha detto che non è giusto che io abbia potuto prenotare perché so usare il telefono quindi sono potuta passare avanti perché c’erano solo due impiegati. Ha ragione, ha ragione da vendere.”
Di lì a poco, il tenore delle risposte mi sorprende molto.
“È la selezione naturale”.
“Sentimentalismo pietoso. La persona anziana nella media non esiterebbe a mangiare i propri nipoti”.
“Non ha niente da fare, aspetta. Se no che impari una cosa nuova”.
Sono forse più amareggiata che sorpresa. In effetti non mi sorprendono quelle risposte.
Quando la teoria della selezione naturale sconfinò dal campo della biologia a quello delle relazioni tra gli esseri umani diventò l’alibi delle disuguaglianze sociali. Solo gli individui più attrezzati, quelli che funzionano, vanno avanti. Gli altri restano indietro, come l’evoluzione vuole che sia. “Survival of the fittest”, che giustifica il diritto del più forte sul più debole.
Penso a un’intervista di qualche anno fa a Rosi Braidotti (filosofa, direttrice e fondatrice del Centre for the Humanities, Eminente Professore all’Università di Utrecht) che, nell’ultimo anno, tra le altre cose, sul tema vaccini, ha sottolineato diverse volte la necessità di una nuova solidarietà intergenerazionale, la stessa che possiamo ipotizzare abbia portato i “giovani” a vaccinarsi; gli stessi giovani che, qualche giorno fa, si sono sentiti dire che non sono stati bravi a valutare i rischi di un vaccino che gli è stata data la possibilità di fare, nonostante non fosse indicato per la loro età. Non sono stati bravi a valutare i rischi perché presi dalla voglia di godersi le vacanze, la socialità ritrovata, i concerti. E perché sennò? Per quale altro motivo avrebbero dovuto farlo?
Riporto qui di seguito alcune sue risposte, perché possano essere uno spunto di riflessione:
La retorica del nuovo fa parte del programma di consumismo sfrenato e maniacale del capitalismo avanzato. C’è una tensione tra il potenziale gigantesco delle nuove tecnologie che hanno come meta il controllo del vivente e di tutte le sue forme, e l’uso monodirezionale che ne viene fatto dal capitalismo — per cui il capitale è la vita stessa. E soprattutto il fatto che hanno riallacciato questa molteplicità complessa alla nozione più restrittiva possibile di individualismo, associandoci una morale molto stanca, la classica morale neokantiana umanistica, che sta andando alla grande. Viviamo in un’epoca moralizzatrice, cruenta e contraddittoria. Quindi io non voglio cadere nel discorso antiquato della tecnofobia che prevede la tecnologia come strumento di dominio perché non ci credo; sono stata allieva di Foucault e il potere non è mai a senso unico. Queste tecnologie sono al tempo stesso liberatorie e strumenti di morte e di distruzione. Abbiamo droni, telefonini, fecondazione assistita e poi i morti al largo di Lampedusa; sono versanti della stessa medaglia e noi dobbiamo pensare alla contemporaneità e agli effetti del potere, molteplici e contraddittori. La forza liberatrice della tecnologia è, e dev’essere, fonte di esperimenti. Sperimentare alcune di queste tecnologie, nei limiti del possibile, sarebbe per me una specie di ridefinizione di ciò che la filosofia dovrebbe fare. Ci occorrono laboratori fondamentali con i quali ricostituire comunità di sapere ma anche di saper fare a partire da queste tecnologie. Inoltre non sono contraria a priori alle modificazioni genetiche. Penso per esempio alla biologia sintetica che è riuscita a fare le prime porzioni di carne artificiale. Si metterebbe in discussione l’obiezione morale di vegani e vegetariani, visto infatti che non è carne da macello di organismi viventi. C’è poi un laboratorio molto forte e bello riguardo i disabilities studies che stanno andando in direzioni molto più interessanti rispetto ad esempio agli studi sulla sessualità in generale, proprio perché i corpi sono già modificati.
E ancora, sul finale dell’intervista:
La rabbia che proviamo quando subiamo o assistiamo a un’ingiustizia è una passione che deve permetterci di sostenere il presente, di modificarlo a seconda dei nostri desideri, invece di disperderla in inefficaci atti nichilisti, noi possiamo trasformarla in affetto positivo. Investiamo nella ricerca di alleanze trasversali, di sinergie inedite, elaboriamo saperi comuni lontani dalle logiche del profitto, contaminiamoci e diffondiamo micro-politiche alternative ai modelli dominanti, stili di vita ecosostenibili, antisessesisti e antirazzisti.
Non voglio più eroi morti.
Trovate il testo integrale dell’intervista qui:
https://ilmanifesto.it/oltre-la-gabbia-del-soggetto/
Non è un paese per vecchi e non è un paese per giovani. Per chi è, allora, questo paese? Chi è il più adatto, quello che sopravviverà?
La vera lotta è tra di noi o è la nostra lotta contro qualcosa di altro, di molto più grande di noi?
Non so, ci penso, mentre penso a come fare per sopravvivere alle tre ore di treno che ho davanti a me. Tre ore tolte al funzionare, in cui sono costretta a stare ferma e che, per questo, mi pesano.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Michele
di Tonia Peluso
Venerdì un messaggio ha squarciato un pomeriggio di quiete.
Michele in rianimazione, leucemia acuta con emorragia su tutto il cervello.
Crudo, come il dolore di chi mi ha scritto. Ci sono dolori così grandi che devi sputarli, vomitarli, non puoi masticarli, addolcirli, non puoi aggiungerci niente che ne cambi l’essenza.
Dopo poche ore quel messaggio è diventato notizia, ribattuta ovunque.
Michele Merlo è grave, il «Mike Bird» di «Amici» colpito da emorragia cerebrale / Michele Merlo, ricoverato in gravissime condizioni all’ospedale Maggiore di Bologna / Michele Merlo grave per una leucemia fulminante
E poi ancora quel messaggio è diventato tendenza su Twitter, contenuto sui social. Tweet, post, foto, stories di fan, amici, ex amici e conoscenti. Messaggi di chi gli ha voluto bene e di chi fino a poche ore prima avrebbe continuato volentieri a sputargli in faccia, ma si sa, di fronte a certe cose ci si riscopre tutti migliori.
Forza Michele / Ce la farai / Mi stai sul cazzo, ma prego per te / “Non sei fatto per mollare” lo hai scritto anche tu
Quel messaggio è diventato polemica nelle mani dei no vax per i quali avrebbe partecipato a una sperimentazione del vaccino contro il covid. Cosa che mi ha fatto incazzare, ma anche venir su un sorriso beffardo perché –ipocondriaco com’era– col cazzo che avrebbe partecipato a una sperimentazione. Le polemiche si nutrono spesso della non conoscenza.
Quel messaggio è diventato realtà. La peggiore delle realtà possibili. E né la speranza, né la polemica sono bastate.
Michele non c’è più, mi ha scritto zia Marilena. Di nuovo senza mezzi termini. Non i è mancato / ci ha lasciato / è volato in cielo / non ce l’ha fatta di chi prova a scegliere l’universo lessicale più romantico. Non c’è più. C’era. E ora non c’è più.
Da domenica Michele non è più qui.
Provo a raccontarvi com’era quando c’era.
Michele era un buono. Amava la bellezza e gli animali. Aveva un gatto per fratello e un bassotto per figlio. Figlio unico, unico nipote, bastava per dieci. Amatissimo, amava la sua famiglia e la voleva fiera di lui, più di qualsiasi altra cosa. Aveva negli occhi una malinconia che era difficile da interpretare. Era malinconia e basta, non si sa di cosa. Ti entrava dentro.
Era un ragazzo senza tempo. Sembrava non appartenergli il presente, non riusciva a volte a prefigurarsi come sarebbe stato il futuro. Viveva spesso con la mente rivolta al passato. Aveva un sorriso da bambino e gli angoli della bocca sempre screpolati.
Aveva tanti tatuaggi che raccontavano storie. Come quella volta che si è scritto sulle mani Credici sempre e non sapeva come dirlo a mamma Katia. Una sera gliene ho visto grattarsi uno con le unghie mangiucchiate, mi ha chiesto se a forza di grattarlo non sarebbe andato via. L’ho guardato incredula e gli ho allungato una crema all’aloe.
Io Michele lo guardavo spesso incredula. A volte mi lasciava proprio interdetta, non lo capivo. Mi sembrava impossibile stargli dietro mentre faceva casini e poi cercava soluzioni. Mi diceva «Dopo ti chiamo, ti devo dire una cosa importante» e poi spariva per giorni. Sempre perso nei suoi pensieri. Quanto cazzo si lamentava. All’inizio mi preoccupavo, poi ho imparato a capire quando c’era qualcosa davvero o era solo pretesto per parlare. Così la buttavo in caciara e lui stava al gioco. Si prendeva in giro da solo spesso, ironizzava delle sue paure. Mi disse una sera che saremmo andati in vacanza in Brasile, io in aereo, lui a nuoto perché i voli gli facevano una paura cane.
Michele mandava meme, comprava fiori, leggeva libri e alcuni fingeva di averli letti. Uno lo ha anche scritto, non vedo l’ora di tornare a casa per rileggere cosa mi aveva scritto sulla prima pagina. Sono giorni che ci penso e non ricordo, nella vita non credi mai di dover trovare conforto in una dedica.
Scriveva poesie, racconti, canzoni. Scriveva bigliettini. E dipingeva. Amava la musica e cercava in ogni modo la strada per farcela. Qualche volta diceva di non volerci più provare, di volersi sottrarre ad alcune logiche che considerava sbagliate, ma non si era mai davvero arreso. Aveva ripreso a scrivere e registrare. Era il suo modo per esprimere il mondo immenso che gli esplodeva dentro.
Ci metteva un casino per montare le librerie Ikea.
Era come un bambino, si meravigliava dei gesti belli. Era gentile. Indossava i cappotti lunghi, da signorino. Aveva il senso del pudore e quello della lealtà. Nulla lo faceva scattare quanto le ingiustizie. Si preoccupava. Voleva bene più di quanto volesse dimostrare.
Mentiva male, ogni danno fatto glielo si leggeva in faccia. È l’immagine che in questi giorni ricordo con più tenerezza: il suo sguardo ruffiano dopo aver fatto una michelata. Lo capivo dal tono dalla voce se c’era qualcosa a cui dover rimediare.
Era un curioso. Mi chiedeva di insegnargli le parolacce in napoletano e le ripeteva con l’accento veneto. Gli avevo spiegato la differenza tra mocc a chitemmuort e mocc a chi te biv dicendogli di usare la seconda che era meno invasiva. Decine di audio per imparare bene la pronuncia: si impegnava, perciò gli regalai l’album delle parolacce da colorare. La cultura alla base della nostra amicizia.
Era contraddittorio. Un’anima pura, libera. Odiava le sovrastrutture e nel volerle confutare a volte ci cascava dentro con tutte le scarpe. Stava lì a riflettere, si arrovellava, appuntava le ipocrisie e gli veniva su una rabbia grande. Così ne diceva una delle sue e se ne stava in equilibrio sulla sottile linea tra il torto e la ragione. Mi pareva che a volte provocasse la rabbia altrui per dare un senso alla sua. E ci riusciva. Ci sono cascata anche io.
In certi momenti il suo essere egoriferito era per me, altrettanto egoriferita, intollerabile. E litigavamo. Se potessi scegliere ora di parlare ancora una volta con lui ci litigherei. Con Michele mi piaceva litigare perché volevamo avere ragione entrambi e si arrivava sempre al punto in cui nessuno dei due ricordava da dove si era partiti. Si litigava per litigare. Poi ci passava, non siamo mai stati capaci di portare rancore. Di rinfacciare le cose sì, medaglie d’oro entrambi. Eravamo simili in certe cose, aveva ragione lui.
«Siamo un po’ simili io e te» mi scrisse un giorno,
«Però tra i due avrò sempre ragione io RICORDALO» risposi.
È una delle poche conversazioni che non ho perso negli anni. Il resto è affidato ai ricordi che oggi assumono significati diversi.
La notizia della sua morte mi ha colto nella città in cui ci siamo visti l’ultima volta. Mi lascia attonita per ciò che non sarà, grata per ciò che è stato. Mi lascia i rapporti di cui avrò cura anche per lui. Mi lascia tante consapevolezze e la certezza che questa vita può essere una puttana. Aveva ragione lui su questo. Mi lascia i momenti vissuti insieme e qualche rimpianto. Abbiamo dato e avuto io e Michele, ma ora lui andando cancella i suoi errori e mi lascia i miei.
Esce di scena col colpo di classe. Ora ha ragione per sempre.
Ho voluto ricordare ciò che è stato per me, consapevole di averne conosciuto alcuni lati, ma non tutti. Perché Michele era davvero un universo da esplorare.
Allora vorrei farvelo conoscere attraverso ciò che resta di lui.
Aquiloni è la mia preferita.
Ciao amico mio,
non fare troppi danni.
Quando torni ad Amalfi passa per Portici.
(Trovi questo articolo anche su Medium)