Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Rassegna /stampa / libertà
di Arianna Capulli
Britney Spears testimonia in tribunale per liberarsi dalla tutela del padre.
La vicenda, così come ci è arrivata da oltreoceano, apre a un’ampia gamma di riflessioni, che vanno dalla gestione della notorietà, alla maternità negata, ai social utilizzati per mostrare una serenità inesistente allo scopo di stare meglio.
“Fingere di stare bene sui social mi ha davvero aiutata”, scrive Britney ai suoi fan. Avete capito bene: è possibile che i social non siano solo lo specchio della vita reale. Incredibile, lo so, è suonato strano anche a me.
Sabrina Ghio, influencer, posta le sue foto in barca, sorridente. La didascalia fa intuire però che non sta attraversando un bel periodo; ammette, qualche giorno dopo, che dovrà sottoporsi a un’operazione delicata. L’utente medio, in alcuni commenti, le fa notare che dovrebbe vergognarsi di dire che è triste una che fa la bella vita e ce la mette davanti ogni giorno.
Quando i social non c’erano e incrociavamo in Autostrada qualcuno col sedere sul Ferrari pensavamo fosse immune dalla sofferenza e dalle malattie? Non me lo ricordo.
Rivolgo un appello a Mark: Mark, gioia, mettiamo un disclaimer, aggiorniamo le condizioni di utilizzo, facciamo qualcosa per aiutare chi ha confuso le tue creazioni con la sedia di un’aula in tribunale.
“Io sottoscritta, Utente Facebook e Instagram, giuro di non dire sempre la verità, ma anche altro dalla verità”.
L’altro giorno mi hanno scritto che io, professione psicologa, non posso permettermi di mostrare di non avere la soluzione a qualcosa perché, cito, “Se io arrivassi da te con un problema che neanche tu riesci a risolvere non avresti la soluzione per me?”.
Se io avessi le soluzioni per tutti, oltre che per me stessa, non farei certo la psicologa; lavorerei, con ogni probabilità, in banca.
Più leggevo i vari articoli su Britney, più mi accorgevo che quello che colpiva chi scriveva, leggeva e commentava aveva a che fare coi diritti negati, l’impossibilità, in questo caso giuridicamente decisa, di autodeterminarsi, di prendere decisioni, di essere autonomi. Ho pensato ai miei anni di tirocinio in psichiatria, ai colleghi bravi che valutavano se fosse o meno opportuno richiedere la pensione di invalidità che, in alcuni casi, avrebbe messo i pazienti nella condizione di sottrarsi a una serie di attività che avrebbero costituito, sulla carta, obiettivi salvavita, come la ricerca di un’occupazione. Ho ricordato la lezione del Professor Tullio Scrimali sulla gestione del paziente affetto da psicosi, al suo aver sottolineato che un elemento non trascurabile del processo di cura riguarda l’inserimento in comunità, l’integrazione oltre lo stigma, la necessità che, chi convive con una forma di disagio psichico, ha di sentirsi parte di un tutto, anche se non “funziona” come la società vorrebbe vederlo funzionare.
Come dite? Vi sembra ovvio? Mi spiace, ma non lo è.
Al prossimo colloquio di lavoro, provate a dire al titolare o alla risorsa umana (ruoli che spesso, purtroppo, coincidono) che avete una storia di depressione maggiore alle spalle e poi iniziate pure a contare i minuti che vi separano dall’essere scartati.
Quindi ho pensato ai ragazzi de Il Colibrì, a Tommaso del mio cuore, al loro laboratorio di pelletteria, dove le loro idee prendono forma.
Alla sera, in tv, si parlava di testamento biologico. Eccola lì, di nuovo, la libertà di autodeterminarsi.
Scorgo le storie Instagram. A., mio amico d’infanzia, è in vacanza in Grecia col suo compagno. Mentre passeggiano e si godono la loro serata, A. fa una storia in cui racconta che un nostro connazionale, qualche minuto prima, aveva notato a voce alta che quel posto era “Pieno di froci”. Mi sento male per lui, per loro, poi penso che saranno purtroppo e ingiustamente abituati.
Mi chiamano da Radio Roma, per l’appuntamento quindicinale con Sara Colonnelli e Federico Clemente. Partiamo da Britney e arriviamo a domandarci quanto sia rischioso lasciare che i genitori esercitino forme poco condivisibili di controllo e condizionamento sui figli, al di là dei dettagli legati all’ordinamento giuridico. Una chiacchiera come sempre stimolante.
Metto giù, ora finalmente mi rilasso.
“La mia famiglia non crede ai vaccini ma è l’unica arma per tornare a vivere. Io voglio vaccinarmi per essere libero”. Il caso di Matteo, un 17enne di Firenze, che si è rivolto all’Associazione Avvocati Matrimonialisti della Toscana dopo che i suoi genitori, entrambi no vax e non sposati, gli hanno negato il consenso a ricevere il vaccino anti Covid.
Matteo, saranno pure no vax, ma, appena te la senti, dai loro un abbraccio e ringraziali per averti messo al mondo, anche da parte nostra.
La libertà, quando è troppa, quando è assente.
Mi scrive Tonia; mi dice che su Twitter l’hanno attaccata perché aveva raccontato un episodio carino capitatole e qualcuno aveva iniziato a fare illazioni, perlopiù insultandola, insinuando lei non fosse davvero dove diceva di essere, perché su Instagram risultava fosse altrove. Decide di cancellare la App, ma continuano ad arrivarle, in mail, le notifiche dei messaggi privati. “Napoletana di merda”. Ok, penso. Per fortuna non discriminiamo solo i froci in vacanza in Grecia, ma chiunque ci capiti davanti. Dovremmo provare a fare così: a doppia discriminazione sulla stessa persona annulla la discriminazione quindi devi tacere.
A proposito di discriminazione: mentre scrivo la Nazionale deve ancora giocare, ma fa sapere che i giocatori non si inginocchieranno prima del fischio d’inizio come gesto di solidarietà al movimento Black Lives Matter.
Ho un momento malinconia; penso all’Olimpico, all’annuncio, che non ricordo a memoria, ma che fa più o meno così: fischi o atti a discriminare i giocatori per il colore della loro pelle saranno severamente puniti, casomai anche con un’ammenda alla società. Nel caso specifico ricordo d’aver sempre pensato una cosa: “Certo che dirgli che, se sbagliano, poi paga Lotito, è come quando se si stecca alla romana allora ordino tutto”.
Quindi, praticamente, se sei un mio amico, un compagno di squadra, benestante e ti fischiano, sono cattivi. Se tra “i cattivi” ci sono minoranze che rischiano di essere discriminate non c’è bisogno di gesti simbolici, di solidarietà. Bonucci invece deve essere uno di quelli che al ristorante pretende che ognuno paghi quello che ordina.
Hanno ritrovato Nicola, il bimbo che si è allontanato da casa e perso nel bosco. L’ha trovato un giornalista de La vita in diretta, che alla mamma dice “Dicono spesso che noi giornalisti siamo invadenti, per fortuna sono stato invadente”.
Eh, però, un bambino non può vivere così.
Avete ragione; alla luce di quanto scritto finora, un breve elenco di come dovrebbe vivere/crescere un bambino, secondo l’italiano/utente medio:
— bianco
— etero
— ricco
— sano
— occupato
— in città
— raccontando la verità social
— nascondendo la sofferenza sui social
Meglio se maschio; anche perché, diciamocelo, se è occupato e il suo impiego è ben retribuito deve essere per forza maschio. Anche femmina, dai, ora che ci penso, però madre, come ci suggerisce Enrico Letta.
Britney, non sei sola. Andrà meglio.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Io sono
di Tonia Peluso
È estate.
E questa mi pare già di per sé una gran cosa.
Io sono una figlia dell’estate, la amo. A giugno rinasco, mi sento più bella, più allegra, meno insofferente. E questa mi pare una cosa ancora più grande dell’estate che arriva. In inverno sono troppo pallida per fare cose, mi limito al necessario. Se potessi me ne andrei in letargo da ottobre a marzo, come le tartarughe.
In estate invece ritrovo il mio bisogno di socialità e accolgo ogni tipo di invito. Divento la versione pro max di me stessa. Fallita serenamente la prova costume, mi preparo a superarne una che mi fa vacillare ogni volta: la prova presentazioni.
«Che cosa fai nella vita?»
«Faccio casini, dormo poco, vado al mare, procrastino tutto ciò che è procrastinabile, guardo i reality beceri, cambio i biglietti un giorno prima della partenza e le Ferrovie mi devono un botto di soldi, amo il teatro e i cantautori, passo il Folletto negli angoli nascosti della casa, guido per centinaia di chilometri, mangio male, scatto foto ai miei nipoti e gli faccio i regali migliori, scrivo cose su Twitter, ma qualche giorno fa ho disattivato l’account.»
«No dicevo di che ti occupi, che lavoro fai?»
Ed è qui che mi stranisco. Perché io ogni volta vorrei rispondere che allora era sbagliata la domanda. Il mio lavoro è solo parte di quello che faccio nella mia vita, neanche la più rilevante. Potrei raccontare che mi sono laureata in sociologia quando non era ancora inserita nella lista delle facoltà inutili che ogni tanto qualche mente simpatica stila, ma solo perché non si sapeva manco esistesse. Era anche prima che i sociologi iniziassero a presidiare i salotti televisivi, dando più o meno lustro alla categoria. Potrei dire che ho cambiato un po’ di lavori e ora insegno: sono una docente formatrice che ha scelto la libera professione. Potrei parlare di che bello che è quando scrivo e faccio la sociologa per davvero. Dovrei però mettere in conto di dover poi rispondere a una lista di E cosa insegni? / Dove? / Non ho capito che vuol dire formatore / Che partita iva hai? / Si riesce a fare il nero o devi pagare davvero tutte le tasse? / E per un mutuo come fai? / Ma perché non provi il concorso a scuola?.
E così con un lapidario
«Insegno. Prendiamo da bere?»
Butto via la conversazione e con essa probabilmente anche la possibilità di poter essere considerata una donna adulta mediamente conforme ai principi di socialità.
La verità è che l’idea di conoscere una persona principalmente sulla base del lavoro che fa mi fa storcere il naso, e qualsiasi altra parte del corpo possa essere storta, per rendere bene il fastidio che mi dà. È una pretesa che si nutre della convinzione che ognuno fa esattamente ciò che avrebbe voluto fare e che quel lavoro lo descriva, ignorando tutti quei vissuti in cui casualità e necessità si sbarrano la strada girando all’angolo della contingenza, come nei film americani in cui la protagonista va a sbattere contro quello figo che poi le raccoglie i libri, la sposa e la ingravida quattro volte nei dieci anni successivi.
Io non lo so se faccio il lavoro che avrei voluto fare. È in linea con la mia formazione, mi piace e mi permette di fare una vita mediamente agiata. Però so che da solo non è in grado di dare di me l’immagine che mi appartiene.
Io sono ciò che penso, come sto al mondo. Sono le foto in cui non sorrido mai e le volte che, al contrario, rido di cose di cui non pare esserci motivo. Sono i miei sogni, i miei progetti, la voglia di credere che nonostante tutto domani sarà sempre un giorno bello perché è un giorno in più.
Sono gli amici che ho, la spontaneità, le troppe paia di scarpe aperte ancora nuove, le scarpe chiuse per l’inverno che invece puntualmente mi mancano.
Sono una che a un certo punto è scesa a patto con le cose che al momento non può cambiare, per illuderle e addomesticarle, fino a quando poi le cambierà. Sono i treni che prendo anche se poi puntualmente ci sto male e giuro di non salire mai più su un treno, ma ci risalgo. Sono dell’ariete e lo dico di continuo anche se all’oroscopo poi non ci credo.
Sono contraddittoria e a volte mento perché mi diverte.
Mentiamo tutti, siamo dei gran bugiardi, soprattutto quando parliamo di noi stessi. E chi dice di non mentire mai –esatto– mente!
Citando Jesus Ramirez Bermudez:
«Quando narriamo qualcosa pratichiamo una sorta di decorazione di noi stessi; si verifica una specie di distorsione della memoria, ma non per motivi effimeri, bensì per alcune necessità dell’identità personale. Ci creiamo un’identità e dobbiamo mantenerla a tutti i costi, anche se a volte questa si dissocia da ciò che siamo.»
Chi siamo?
Siamo ciò che è successo e ciò che sarebbe potuto accadere e non è successo: i sogni frustrati, le illusioni incompiute, tutto ciò che abbiamo fatto o desiderato e ciò che invece abbiamo fallito o scartato.
Di certo non siamo quelli che fanno domande banali per portare avanti con finto interesse conversazioni mediocri.
«Che cosa fai nella vita?»
«Me stessa.»