Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e, per questa settimana, Alberto bebo Guidetti che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
Love the way you lie
di Tonia Peluso
Com’è bello far l’amore da Trieste in giù
L’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu
E se ti lascia lo sai che si fa?
Trovi un altro più bello
Che problemi non ha
Raffaella Carrà ci ha lasciato lunedì, non mi è mai sembrata così presente.
Chi questa settimana non ha canticchiato almeno una volta “Tanti auguri”?
Una canzone che ricorda ad ognuno un pezzo di vita: le festa in spiaggia, quella cotta estiva che ti ha spezzato il cuore, la gioia, il colpo di testa dei suoi balletti che hai provato a replicare.
Qualcuno ha azzardato quasi un’esegesi filo cristiana, ipotizzando fosse un consiglio da non prendere alla lettera, una sorta di inno alla “superficialità relazionale”, che non volesse il cielo mai. Altri hanno controbattuto di non farne un’interpretazione così seriosa, che in fondo si tratta di una canzonetta.
Due posizioni unite dall’aver ignorato la portata storica di un brano che è stato manifesto di libertà, irrompendo nelle case degli italiani sulla punta di piedi che ballavano, canticchiato da un viso pulito.
Siamo nel marzo 1978: appena otto anni dopo la Legge sul divorzio, due mesi prima della legalizzazione dell’aborto, in un Paese in cui il diritto d’onore permette ancora all’uomo — padre, marito, fratello — di uccidere per difendere la propria dignità.
Raffaella ha cantato la libertà di amare chi vuoi, come vuoi, quando vuoi, da Trieste in giù, al netto dei pregiudizi e dei percorsi prestabiliti.
Quanto ancora abbiamo bisogno di ricordarcelo oggi, noi che sembriamo poter godere della fortuna di vivere in un tempo lontano dall’arretratezza culturale di quegli anni, ma che in realtà siamo vittime di dinamiche che persistono al di sotto dei costrutti sociali condivisi.
Ci pensavo lunedì mentre a Temptation Island andava in onda la mia più grande paura: la possibilità di continuare a condividere la mia quotidianità con qualcuno che non mi faccia star bene, che mi faccia venire voglia di girarmi dall’altra parte del letto, senza però mai avere il coraggio di alzarmi e dichiarare la fine della relazione o l’inizio della mia autodeterminazione, ribaltando la prospettiva.
«A volte mi vergogno quando la porto con me, è proprio limitata» confida uno dei protagonisti a una ragazza pagata per farlo dubitare. Nel mentre la fidanzata, ignara di ciò, dall’altra parte del villaggio fa un dettagliato elenco delle cose che le fanno schifo di lui: non alza la tavoletta, fa i rutti a tavola, non sa spolverare, non offre la cena, al supermercato divide il conto a metà, sta diventando calvo e a volte ha dei modi brutti nei momenti di intimità.
Lo chiedo su Twitter.
I follower, i soldi, le collaborazioni future coi beveroni dimagranti, risponde chi sostiene che la possibilità di partecipare al programma e avere guadagni futuri metta in secondo piano la necessità di una relazione felice.
L’abitudine, il narcisismo, l’esigenza di sposarsi, la volontà di sminuire l’altro per assolversi o sentirsi migliori, sostengono alcuni consci del fatto che queste cose non avvengono solo in televisione a favore di camera, bramando la notorietà.
Così, mentre va in onda un racconto sconfortante di cosa può voler dire stare con qualcuno senza essere mai stati con sé stessi, mi trovo a pensare a quante volte facciamo l’errore di cercare al di fuori un palliativo all’ insoddisfazione o semplicemente qualcuno a cui addossare il motivo di un mal di vivere profondo.
L’amore non è una via di fuga dalla solitudine.
L’amore non è una facile soluzione all’infelicità.
L’amore è un sentimento faticoso. È un’arte che richiede pazienza, disciplina, tempo, conoscenza reciproca e di sé stessi. In l’Arte di amare Erich Fromm dice che:
«L’amore, sentito così, è una sfida continua; non è un punto fermo, ma un insieme vivo, movimentato, anche se c’è armonia o conflitto, gioia o tristezza, è d’importanza secondaria dinanzi alla realtà fondamentale che due persone sentono sé stesse nell’essenza della loro esistenza, che sono un unico essere essendo un unico con sé stesse, anziché sfuggire sé stesse.»
e ancora:
« Chiunque abbia possibilità di studiare l’effetto di una madre dotata di genuino amore per se stessa, può vedere che non c’è niente di più utile che dare a un bambino l’esperienza di ciò che è amore, gioia, felicità, che solo può ricevere il bambino amato da una madre che ama se stessa.»
Amarsi per amare.
Love the way you lie canta Rihanna nella sigla del programma e invece spesso a mentire siamo noi che indossiamo illusioni, che preferiamo una sicurezza di facciata alla solitudine, al giudizio sociale, alle domande impertinenti su una vita sentimentale auspicabile, che sembra ancora ferma a dettami sulla carta desueti. Noi che proiettiamo sugli altri ciò che di noi odiamo così tanto da volercelo strappare di dosso. Noi che speriamo di trovare soluzioni senza indagare a fondo il problema.
Prenderci la responsabilità della nostra esistenza è una fatica che non sempre siamo disposti a compiere. Così disintegriamo l’amore: giustificandoci con gli altri, assolvendoci la notte.
Secondo la regola dei segni:
più per più fa più
meno per più fa meno
più per meno fa meno
meno per meno fa più
il prodotto di due fattori concordi è positivo, mentre il prodotto di due fattori discordi è negativo.
L’amore è più complesso di un’operazione algebrica.
Bisogna ascoltarsi, conoscersi, piacersi. Bisogna comprendere i propri sentimenti e prendersene cura. Bisogna imparare a tramutare i segni negativi in positivi.
Bisogna essere soddisfatti in due, non molto infelici entrambi, perché si guardi nella stessa direzione.
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Domenica sul prato inglese
di Alberto bebo Guidetti
Venerdì ero teso: colpa dell’esordio con Fantastico, ma anche del freddo lupo nella carrozza del treno, mentre Berrettini non chiudeva il terzo set e la connessione se ne andava, tra le bestemmie e i pugni chiusi nel vuoto ogni volta che smetteva di soffrire in risposta al servizio del polacco.
Poi lo spettacolo è andato bene: per me, per noi, per lui.
A colazione ho riguardato gli highlights, soffrendo nuovamente, così ho dato una sbirciata alla Pliskova, che avevo visto agli Internazionali di Roma qualche mese fa, sotto un bel cielo primaverile, un filo meno bello del suo tennis. Ieri alle 15 ha giocato la finale contro Barty e, se siete digiuni di tennis femminile, riguardatela. Il tennis femminile, ingiustamente all’ombra del suo corrispettivo campionato maschile, è uno sport che fa innamorare chi è a caccia di bel gioco.
Salito sul treno per tornare a casa ho fatto scorpacciata di Twitter, Facebook e Instagram, tutti pieni di elogi e applausi per questa finale, presa con i denti dall’italiano, ma con giustezza. Perché il tabellone era dal lato giusto, perché il ragazzo sta giocando bene.
Poi ho ricordato che comunque, star lì in mezzo, è una cosa da pazzi. Li guardi negli occhi e non trovi il fuoco sacro di un Maradona o di un Kobe Bryant. Lì in mezzo ci sono due persone che, già solo per aver intrapreso la carriera professionistica nel tennis, potrebbero vedersi diagnosticate chissà quali spigolature della mente. Lo sguardo fisso nel vuoto di Federer seduto tra uno scambio e l’altro è un’immagine che tutti noi appassionati abbiamo stampato nella memoria. Non è il businessman che sponsorizza Rolex, non è il padre di famiglia, non è l’educato ragazzo che solleva trofei.
Lui, come parte del tutto, come esempio per tutti.
A qualche ora dalla finale vorrei dire che sarà bruttissimo, sarà un dolore, sarà una punta di ghiaccio di sofferenza. Lo dico per chi ingenuamente collegherà la tv al servizio a pagamento in comodato gratuito sull’ottavo canale, per una prima volta che odora di storia e, ce ne scampi ogni sindrome, meglio non perderla per strada, la storia. E dato il fomento più che giustificato per Berrettini in finale a Wimbledon è bene ricordare contro chi sta andando a giocare, questo bel cristo venticinquenne di 196 centimetri dal dritto effettato: perché se Wimbledon è una religione, il Centre Court è San Pietro, e bisogna riconoscere chi tiene le ginocchia piegate, il mento a punta rivolto alla tua racchetta e quegli occhi persi nel vuoto che vanno oltre la percezione che noi umani abbiamo dello spazio e del tempo e quindi della velocità. Mentre stai per servire per la tua prima volta, a Wimbledon, al Centre Court, dove i giocatori diventano grandi e, quindi, dove si soffre più di ogni altro campo:
Da modesto insegnante di tennis, aggiungerò che il gioco del nuovo campione si basa su una condizione tecnica straordinaria, anche per la capacità di assorbire e metabolizzare la fatica. Grazie allo straordinario perno delle gambe, Nole è in grado di colpire splendidamente palle per altri quasi perdute all’esterno delle righe laterali, e trasformarle in parabole rientranti di geniale geometricità. «Mi ricorda qualcuno» mi ha giusto confermato questa mattina Gianni Rivera. Bimane sul rovescio com’è ormai obbligatorio nell’Era post Federer, è in grado di giocare con una sola mano volée e drop micidiali, dissestando un tennis contemporaneo ormai legato alla linea di fondo. Ha acquistato in se stesso tutta la fiducia instillatagli da un’intera tribù, o meglio da un’intera nazione.
Gianni Clerici, precisamente 10 anni fa, descriveva quello che sarà a 25 metri in diagonale mentre Berrettini servirà la sua prima palla, in finale, a Wimbledon, che mi sembra un bel modo per passare una domenica pomeriggio, se hai 25 anni.