Ciao! Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
VIVA va in vacanza e tornerà a settembre, ma prima:
Viva ‘a stagione
di Tonia Peluso
Il 21 giugno inizia l’estate in tutta Italia.
A Napoli no. A Napoli arriva ‘a stagione.
Da me le stagioni sono due: l’inverno e ‘a stagione. Tutto il resto sono ‘e miez’ tiemp’, mesi di transito tra il mare e la tavola di Natale, un periodo mite in cui gli struffoli lasciano il posto alla fresella. Un tempo che consuma l’attesa della ricorrenza sacra invernale e del trionfo della vita dell’estate, incoronata la stagione per eccellenza.
«Comm’è bella ‘a stagione» diceva sospirando mio nonno. Com’è bella l’estate. Le giornate più lunghe, il sole che scalda, il mare, le finestre sempre aperte, i panni stesi al sole, gli anziani seduti fuori ai bassi, lo spighetto a Mergellina, Castel dell’Ovo, i vicoli di Sorrento, le calette raggiungibili solo via mare, la granita da Lello, il cuoppo di mare, le cene al Borgo Marinaro, la bellezza della Costiera, i sogni a Marechiaro, la Gaiola, i tuffi dei ragazzini dal Palazzo degli Spiriti.
«Comm’è bella ‘a stagione » mi son trovata a dire io. Non ricordo bene quando, ma so di poter far risalire all’aver pronunciato questa espressione laconica l’inizio dell’età adulta.
Succede così, per tutti, come un rito di passaggio.
Quando sei piccolo esiste solo ‘a stagione, che non inizia il 21 giugno ma l’ultimo giorno di scuola. Poi cresci e l’estate si frantuma in tre momenti.
Il primo è l’attesa della stagione. Inizia intorno alla metà di gennaio. Natale è già un ricordo lontano, il freddo è sempre più freddo degli ultimi cinquant’anni — anche se ne hai trenta — e ti trovi a invocare ‘e miez’ tiemp’, ma solo come anticamera della stagione.
Poi arriva il caldo e con esso l’estate. Il caldo, come il freddo, è sempre più caldo degli ultimi cinquant’anni. Lo era l’anno precedente, lo sarà quello successivo. L’estate la maledici nei giorni lavorativi perché non puoi andare al mare, a differenza dei fortunati in spiaggia che vedi dal balcone o dal finestrino del treno in corsa. Però diventa stagione nei ritagli di spensieratezza la sera o la domenica. La domenica è sempre stagione.
Fino a che ‘a stagione arriva davvero. E tutto torna a posto, come se ritornassi a respirare a pieni polmoni, non esiste più ciò che ti ha tolto il sonno, non esiste stanchezza.
‘A stagione si esce, si perdono gli orari. ‘A stagione si vive. Si mettono da parte i problemi e si fanno le provviste di spensieratezza per l’inverno.
‘A stagione non esiste il vaccino, il covid, il lockdown. Non abbiamo addosso l’amarezza per i diritti civili negati, né la rabbia per la dignità calpestata. ‘A stagione, voi non ci crederete, ma scompare anche il precariato. Il lavoro a nero? Non esiste, ve lo giuro.
È un tempo scellerato, allora penserete. È un tempo di eccessi, pericoloso. È l’invito a violare qualsiasi regola. No, è tutto il contrario. È il tempo sperato, è un tempo che si dilaziona fino a farti perdere e ti abbraccia, ti consola. È il tempo della vita che ti fa credere d’aver davanti un anno migliore.
‘A stagione, tra un tuffo e un tramonto, ti dà la forza di restare a galla.
Vi saluto con la playlist delle mie canzoni estive dal 2000 a oggi perché ‘a stagione si canta.
Ne sono trentuno, una per ogni giorno di agosto.
Ci vediamo a settembre.
Voi state attenti che così magari avremo davanti davvero un inverno migliore.
Viva ‘a stagione.
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Il patriarcato in Italia
di Arianna Capulli
Estratto di un pranzo con una coppia di amici che vive in Olanda, tornata in Italia per le vacanze estive.
- Allora, come si sta in Olanda?
- Bene dai, non fa mai troppo caldo come qui, però bene. Forse qui fa troppo caldo.
- Quindi, vi è piaciuta Roma? State ancora considerando di tornare in Italia?
- Ce l’abbiamo messa tutta, ma in Italia c’è troppo patriarcato, a Roma soprattutto.
Potrei aver pensato: “Ecco qui, la sindrome dell’ex fumatore, l’avevo anch’io”.
- Cosa te lo fa dire?
- In questi giorni, ogni volta che ho ordinato il vino, lo hanno fatto assaggiare a lui. Io lo sceglievo, ordinavo, ma lo facevano assaggiare a lui.
- Di solito chiedono chi preferisce assaggiarlo, ma non mi stupisce — tento la difesa dell’imputata nazione, invano.
- Per non parlare del conto. Mi sono alzata diverse volte per pagare e, ogni volta, mi guardavano sorpresi. In un’occasione mi hanno anche chiesto perché lui non si fosse alzato.
- A noi è capitato qualcosa di simile, qualche giorno fa, a Castel Gandolfo. Eravamo lì che ammiravamo il panorama sulla terrazza di un ristorante e il cameriere si è rivolto a me, dicendo: “Hai visto dove (lui) ti ha portata oggi, sei fortunata”. In coro gli abbiamo risposto che ero stata io a portarlo lì, avvertendo il brivido di piacere di quando sai che stai compiendo un’impercettibile rivoluzione.
- A proposito di ristoranti, sono giorni che Ale deve entrare nel bagno delle donne per cambiarla, perché i fasciatoi, spesso, li trovi solo nel bagno delle donne.
Sgrano gli occhi.Cavolo, non ci avevo mai pensato.
O meglio, forse l’avevo letto da qualche parte, ma ora che sono al ristorante con la figlia di un anno di due persone libere, ho un insight: come possiamo equiparare il ruolo di madre e di padre se il contesto, ancora troppo spesso, lo impedisce?
Ale si alza e va a cambiare la bambina.
Ordiniamo da mangiare e la bambina inizia la sua esplorazione. Sceglie in autonomia cosa assaggiare e come farlo. Dopo pochi minuti ha il pomodoro fin sopra i capelli. È, come direbbe uno molto bravo, uno spettacolo d’arte varia, la guarderei per ore scegliere cosa assaggiare e, forse, lo farei anch’io se non fossi intrappolata in corpo adulto. Nella mia testa riecheggiano le parole dei miei genitori: “Non fare quell’intruglio, stai seduta composta, ordina solo quello che mangi, mangia tutto perché lo paghiamo”.
Dopo un breve excursus sulla sanità in Olanda, forse unico aspetto al quale faticherei ad abituarmi (la sanità privata non esiste, esiste quella pubblica, ma gli accessi alle strutture sono contingentati e legati al parere del medico di medicina generale che decide se hai bisogno di quella prestazione sanitaria e il grado d’urgenza), torniamo a parlare di quelli che, ora posso dirlo, sono a tutti gli effetti l’esito di decenni di una società fondati sui ruoli, sui dogmi, sulle cose che sta bene fare e quelle che non si fanno.
Scopriamo che un asilo pubblico, in Olanda, costa molto, ma che le maestre caricano i bambini su una bicicletta a più posti e li portano, adeguatamente vestiti, a saltare nel fango, anche se piove.
Quando tornavo dalla Svizzera e raccontavo ciò che vedevo, tutti, nessuno escluso, mi rispondevano “Vabbè, ma lì sono pochi”. Forse è proprio perché qui siamo tanti che potremmo fare una differenza maggiore, invece no.
Lo scopriamo mentre i nostri amici si alternano nel dare attenzioni alla piccola. Penso: “Ma che figata. Ma così lo faccio anch’io un figlio. Un figlio di entrambi, non devo occuparmene solo io”.
Intendiamoci, con mio marito, ci impegniamo tanto affinché tutto sia condiviso, incluse le fatiche, le incombenze, le responsabilità ma, come dicevamo prima, l’intento spesso non basta in una società che non lo favorisce.
Io non voglio ricevere aiuto, soprattutto non lo voglio chiedere. Io pretendo che i compiti siano condivisi naturalmente, spontaneamente. Noto che certamente mi è capitato di osservare lo stesso approccio alla genitorialità, ma che, spesso, la richiesta doveva essere formulata e il mandato, anche implicitamente, ma doveva essere dato.
- Lasciala esplorare, gattonare in giro per la sala del ristorante.
- Ma è sporco in terra
- Eh vabbè, poi la laviamo.
- A te, Ale, come va il lavoro?
- Bene. Sto bene. Sono un loro dipendente, ma non ho orari lavorativi. Posso gestire il lavoro in autonomia, perché i dipendenti che riescono a coltivare anche i loro interessi (famiglia inclusa) sono dipendenti sereni che lavorano meglio. Questo ci ha aiutati molto nell’organizzazione con la bambina, così che entrambi avessimo la possibilità di lavorare, alternandoci.
Forse sono morta e mi stanno raccontando il paradiso, penso.
- Ecco, un’altra cosa che mi stupisce è che qui le persone fanno molta difficoltà ad esprimersi come persone. Nella mia azienda, ad esempio, nessuno teme il coming out. Anzi, i capi partono dal presupposto che, ancora una volta, più un dipendente è libero di esprimersi in un ambiente inclusivo e non giudicante, più lavorerà serenamente.
La mazzata finale.
- Qualche mese fa, una bambina che avrà avuto 7/8 anni, mi ha chiesto se avessi una moglie o un marito. Me lo aveva chiesto in olandese, ma le ho detto che non lo palavo ancora bene, allora me lo ha detto in inglese, un inglese migliore del mio.
- Come?
- Certo, per lei era assolutamente normale avere questo dubbio.
- A te, Arianna, cosa piace di Roma? Perché ne sei così tanto innamorata?
- Mi piace il mio quartiere, mi piace salire sul motorino e in pochi minuti essere a San Pietro. Mi piace…
Cosa mi piace? Non lo so più cosa mi piace. O meglio, mi piacciono tante cose, ma mi piacerebbe che il futuro arrivasse anche qui, a breve, in tempo perché possa godermelo.