VIVA #20
Ciao!
Questa è VIVA, una rubrica di approfondimento curata da Tonia Peluso e Arianna Capulli che ogni 15 giorni finisce nelle vostre email.
L’Italia scopre la guerra
Giovedì l’Italia si è svegliata e ha scoperto la guerra.
I vari «Dalla storia non abbiamo imparato niente» e «Nel 2022 torna lo spettro della guerra» tuonano sui social. Qualcuno ci tiene a precisare che la guerra esiste da ben prima della notte del 24 febbraio 2022 in cui l’Ucraina si è trovata sotto i bombardamenti russi. Dice il vero. Non ha mai smesso di esistere la guerra, forse siamo noi ad aver smesso di quantificarne l’orrore perché abbiamo avuto la fortuna, negli ultimi decenni, di poterla considerare come un fatto che toccava agli altri, lontano nello spazio o nel tempo. Abbiamo potuto godere del privilegio di guardare alla guerra con quell’umana pietà che ci fa sentire più fortunati di chi invece la guerra la vive ogni giorno sulla propria carne ormai logora. La guerra è di chi la conosce da sempre, avremo pensato inconsapevolmente qualche volta vedendo le immagini di città straziate e bambini scalzi a giocare tra le macerie. Non è un fatto nostro, appartiene agli altri. Sarebbe bastato per un attimo dare un nome a quegli altri, immaginarci i loro volti, provare a ricostruire alberi genealogici i cui rami sono stati potati ancor prima che fossero secchi, per capire che nessuno nasce pronto a conoscere la guerra. Non lo erano le donne e gli uomini jugoslavi negli anni ’90, non lo erano i bambini che proprio nel Donbass stanno vivendo un conflitto ormai dal 2014. Non lo erano certamente le persone morte in Siria a causa del raid di Israele su Damasco avvenuto proprio nelle stesse ore in cui lo sguardo di tutto il mondo era sull’Ucraina.
L’Italia giovedì svegliandosi non ha scoperto la guerra, l’ha solo sentita più che mai vicina.
Delle bombe che cadono su Kyiv a noi sembra di sentire il frastuono e la puzza. Ci sembra di vivere quella disperazione come se fosse imminente anche la nostra. Sentiamo che tutto possa succedere da un momento all’altro. Del resto, la NATO afferma che: «È stata colpita fondamentalmente la pace in Europa. Il mondo chiamerà la Russia e la Bielorussia a rispondere delle loro azioni». Nel mentre Putin minaccia “conseguenze mai viste prima” per chi si schiererà a sostegno dell’Ucraina. Potrebbe bastare questo, unito alle analisi geopolitiche — più o meno precise — che si avvicendano in questi giorni, per sentire la guerra più che mai vicina. Ma c’è qualcosa di più. Stiamo vivendo in questi giorni un condizionamento sottile che ci dà quasi un senso di immedesimazione totale. Kyiv ha tutta l’aria di una città europea, così moderna, così simile alle nostre. Ogni pezzo che cade rende il dramma all’ennesima potenza.
Da giovedì mattina sui social sono state condivise molte immagini per documentare quanto sta accadendo in Ucraina. Su alcune mi sono soffermata per un tempo che non sono in grado di misurare, attratta dai dettagli di una normalità che stava per essere frantumata. Mi sono sentita prima colpevole, per essere attenta osservatrice del dolore di persone come me spiattellato davanti agli occhi del mondo, e poi, subito dopo, coinvolta. Quelle immagini sono diventate un atto di invadenza necessario a correggere una distorsione che negli ultimi decenni si è diffusa come un cancro nella democratica Europa: la guerra fatta da gente diversa da noi è una menzogna.
Guardando questi frammenti, nella mia mente le immagini si accostano per similitudine. Il bambino con la paura in volto ha ai piedi una borraccia tipo quella che usa mio nipote. La ragazza con la mascherina rosa e gli AirPods cammina a passo spedito, mentre intorno a lei la gente sta lasciando la città alla ricerca di un luogo sicuro. Chissà dove sta andando, mi chiedo, spero stia lasciando la città anche lei. Un papà si abbassa leggermente la mascherina per parlare a suo figlio. Forse vuole rassicurarlo su un presente troppo brutto per poter essere comunicato attraverso una barriera sterile. Ai bambini serve guardare le espressioni, fissare il labiale, scorgere in chi amano la certezza che andrà tutto bene. Ai bambini, per resistere alla guerra, serve fissare negli occhi la bugia di una domani migliore e il viso del proprio papà, cose che molto spesso coincidono.
Ancora più della colonna di fuoco, mandata in onda dai notiziari, a lasciarmi attonita sono le tante immagini di persone che si salutano con compostezza, nonostante lo strazio del non sapere se potranno riunirsi un giorno o sarà un addio. Mi commuove la gente che scappa portandosi dietro gli animali, celebrando il rispetto per ogni vita da parte di chi conserva la speranza di mettere in salvo la propria. È una cosa difficile da comprendere fino in fondo.
Alle colonne di fumo, alle città devastate, ci siamo abituati. Sì, abituati, per quanto cinico possa suonare. Negli ultimi decenni la bruttezza della guerra, spiattellata in televisione e sui social, è entrata nelle nostre case, per informare a volte, per spettacolarizzare il dolore altre. All’inizio ci ha fatto orrore, poi è arrivata la compassione. «Povera gente. Poveri loro. Povera gente che vive lontana, nello spazio e nel tempo, atrocità che noi non potremmo mai più vivere, protetti nella torre d’avorio di un progresso che non ha posto per la guerra e non comprende la morte a causa della guerra» ha fatto eco in noi quella distorsione per la quale la guerra è di chi la conosce da sempre, non di certo un fatto nostro.
La ragazza che scappa con gli AirPods e la mascherina rosa ci costringe a una riflessione difficile, apre la strada della similitudine: potrei essere io, potresti essere tu. Lì cambia tutto. L’interrotta normalità delle vite degli altri impone di fermarci a pensare. Da qualche giorno, in maniera indiretta partecipiamo alle esperienze di persone che riteniamo simili a noi, così simili da aver spazzato via il privilegio di non essere nati per conoscere la guerra. Ci siamo trovati nudi, di fronte alla crudeltà umana. Ci siamo immaginati scalzi se domani davvero dovesse succedere a noi. Ci siamo scoperti vigliacchi per tutte le volte che abbiamo pensato che tanto in fin dei conti non ci riguardava in prima persona. Abbiamo preso coscienza che le distorsioni ci fanno vivere nel lusso di poterci proteggere da scenari in cui immedesimarsi richiede una gran fatica.
Forse non è stata strafottenza, ma solo sopravvivenza. Ché qui se volessimo riportare a noi tutte le atrocità dell’uomo ci sarebbe da sedersi al centro della strada e dire io da qui non mi alzo, non mi alzo mai più, tanto a che serve.
Tutelarsi da ciò che non è in nostro controllo è sano, ma fare la propria parte è doveroso. Ora che, più che mai, abbiamo scoperto quanto la guerra sia un fatto che riguarda, e sempre ha riguardato, tutti, possiamo decidere di avere un ruolo attivo manifestando per la pace o sostenendo con i nostri mezzi, per quanto sia possibile. In questo spazio, che è come se fosse casa mia, vi propongo una realtà a cui poter donare.
Soleterre Onlus lavora tutti i giorni per garantire forniture mediche, strumentazione chirurgica e farmaci nei reparti dell’Istituto del Cancro e dell’Istituto di Neurochirurgia di Kyiv e con l’Ospedale Regionale di L’viv, con la missione di salvare la vita a bambini che si trovavano già a vivere il terrore della malattia oncologica e ora hanno visto aggiungersi anche la paura della guerra.
https://soleterre.org/ucraina/
(Trovi questo articolo anche su Medium)
Semi al vento, cielo fiorito
Qualche giorno fa, il brutto risveglio. Due ore dopo avrei dovuto iniziare a lavorare. Un’ora e mezza l’ho trascorsa, senza accorgermi del tempo che passava, a scorrere i tweet, cercare le notizie più recenti, a illudermi di poter seguire la guerra in diretta, come se questo potesse farmi stare più tranquilla.
Sono figlia di un militare e diplomatico, in servizio prima nei Balcani e poi in Iraq. Quella compulsione la conosco bene. È un vissuto che collocherei a metà tra l’ansia e la rassegnazione: vuoi sapere cosa sta accadendo quindi coltivi l’illusione della tecnologia come la grande opportunità di averne la certezza. È il principio teorico dell’orribile verità che vince sul dubbio, applicato alla peggiore delle realtà possibili; il bisogno viscerale di mettersi il cuore in pace, accettando l’orribile.
Un ex fidanzato una volta mi disse: “Sei troppo attaccata alla tua famiglia, continuamente distratta dalla necessità di sapere che tuo padre è Online”. Incassai silenziosamente, pur sapendo si trattasse di qualcosa di più complesso dell’attaccamento alla famiglia.
L’esponenziale sviluppo della tecnologia ha condotto alla diffusione di un fenomeno che prende il nome di Information Overload, sovraccarico informativo con conseguente sovraccarico cognitivo. Negli anni sono state evidenziate e studiate le due sindromi più comunemente legate al fenomeno: l’Information Fatigue Sindrome (IFS) e l’Information Anxiety, entrambe derivanti dallo stress del dover fronteggiare una quantità eccessiva d’informazioni.
Richard Saul Wurman (1989) definisce l’ansia da informazione come “la lacuna sempre più vasta tra quello che capiamo e quello che riteniamo di dover capire. È il buco nero tra i dati e il sapere; si manifesta quando l’informazione non dice quello che vogliamo o abbiamo bisogno di conoscere”.
Si parla di Information Fatigue Syndrome (IFS) quando l’esposizione prolungata alle notizie reperibili in rete compromette la nostra capacità di elaborare correttamente le informazioni, incidendo negativamente sul nostro vissuto emotivo quindi sui processi decisionali.
In questi giorni mi è capitato di leggere di molte persone che raccontavano di non riuscire a non aggiornarsi su quanto sta accadendo in Ucraina. Ho riflettuto su quanto Twitter rappresenti la trappola perfetta per non smettere mai di aggiornarsi, sperimentando la sensazione di essere “dentro” la notizia, potendo leggere i comunicati in diretta di una guerra che si combatte anche Online. Senza considerare un altro rischio, quello che riguarda la tendenza a dimenticare che non tutte le notizie alle quali ci esponiamo sono la fotografia di ciò che sta accadendo, lì e ora. A tal proposito, suggerisco di consultare un accurato thread di Daniel Funke, fact checker per USA TODAY.

Tenersi informati è importante, non lo si può e non lo si deve negare; possiamo però scegliere accuratamente le fonti alle quali attingere per avere un quadro sufficientemente chiaro della situazione e scegliere un momento della giornata in cui farlo.
Qualcuno negli ultimi giorni si aspettava che gli/le influencer smettessero di fare il loro lavoro nel rispetto degli eventi in corso. Molti di loro hanno espresso la loro solidarietà tra una sponsorizzata e l’altra, ma anche questo comportamento è stato criticato, in un circolo vizioso fondato sulla convinzione che esistano un modo giusto e uno sbagliato di reagire a ciò che accade intorno a noi. Non esiste un modo giusto e/o sbagliato di reagire.
Una distorsione spesso riscontrata è quella per la quale si pensa che la pubblicazione a mezzo social validi i nostri vissuti. “Se non lo scrivi, non lo provi” e ancora “Se non ti tieni costantemente informato, te ne stai disinteressando”. Guidati da tale distorsione, la possibilità che la ricerca di informazioni diventi un impulso irrefrenabile, quindi una dipendenza, è da considerarsi reale. E le dipendenze, si sa, causano ripercussioni sul piano emotivo e comportamentale. La dipendenza dai social in un momento come questo come difesa dall’eventualità di essere criticati o di percepirsi inefficaci.
Ho letto che qualcuno ha criticato le inviate sul posto perché indossavano l’elmetto, accusandole di esasperare il rischio reale. Qualcun altro, mentre osservavo che abbiamo anche la necessità di distrarci da quanto sta accadendo, mi ha accusata di essere privilegiata quindi mi ha invitata a tacere. La guerra nella guerra, una guerra tra vittime di un simile vissuto di ansia, paura, angoscia e disperazione, emozioni alle quali è inevitabile ognuno reagisca a suo modo, ma sarebbe bene riconoscesse che il suo modo non è l’unico possibile.
Un contesto che può stimolare la percezione di autoefficacia è la manifestazione per la pace. Lì, possiamo condividere, anche silenziosamente, il nostro vissuto, esprimendo al contempo solidarietà e vicinanza alle persone direttamente coinvolte.
Chi getta semi al vento farà fiorire il cielo. Mentre aspettiamo, irrighiamolo di speranza e prendiamoci cura di noi.