Volontè
La verità è che ho sonno, ma una parte di me non vuole cedere. Temo il sogno di tutti i miei orrori, arti che penzolano dal soffitto, corde sporche ai piedi del letto, pareti che fremono di ali di mosche. Voglio dormire, non voglio sognare. Cerco di barare, di pilotare la veglia e il sonno, per non affidarmi al caso, a volte, mi costruisco un’immagine piacevole, qualcosa di bello che mi faccia chiudere gli occhi. Ma questo abbandonarsi estemporaneo non so mai dove mi porterà, non conosco le forme che assumerà.
Sento il giudice interiore impormi di resistere – dice che si può riposare anche con gli occhi sbarrati, che dormire è sopravvalutato. Questo giudice interiore così austero che volto ha? Lo sento echeggiare nella cassa toracica, battere forte i pugni e pontificare senza sosta, eppure non so come sia fatto. Sta sempre seduto lassù, mi scruta dall’alto e mi tiene nelle sue leggi, ma ha il mio stesso viso? O quello di mia madre? No. No, credo sia più simile ai tratti della signora Volontè, la maestra di matematica delle elementari. Sento ancora il profumo di legno e mina della sua matita rossa, mentre cerchia accigliata i miei errori. Portava i capelli neri, corti, aveva gli occhi piccoli e grigi, il viso scavato e aguzzo. Era sempre in ordine, si vestiva con grande cura. Non urlava mai, non era irascibile, l’aura della sua autorità stava tutta nel portamento e nella compostezza dei modi. Vedo spesso la scena di lei seduta con la schiena ritta e la punta della matita ben temperata tra le mani magre, così secche da lasciar intravvedere le ossa. Le dita sembravano bastoncini dello Shangai, buttati lì, sulla cattedra, da un dio crudele. Ogni volta che riconsegnava il mio quaderno mi guardava sconsolata e faceva grandi sospiri – ah, quanto la mettevo alla prova con la mia scrittura grossolana, quanto stressavo la sua pazienza con le macchie di inchiostro. La maestra di italiano ci faceva usare la penna cancellabile, ma la signora Volontè voleva che per la sua materia usassimo la stilografica. Io sono mancina e involontariamente trascinavo l’inchiostro vivo da sinistra a destra, come nuvole incarognite dal vento, i numeri si deformavano, le somme non tornavano. Per scrivere il braccio e il polso dovevano assumere posizioni strane, innaturali. Quando mi spazientivo, la punta del pennino non reggeva al nervoso e si rompeva. Le forbici con l’impugnatura sagomata mi facevano venire i crampi, le maestre non si capacitavano della mia inettitudine nel ritagliare delle semplici figure. Solo molti anni dopo, per il mio compleanno, mamma mi ordinò in cartoleria una forbice e una penna stilografica per mancini, ma non le ho mai usate. Mi è rimasta nella testa l’impossibilità di ritagliare e scrivere con la stilo. Ma anche una forte repulsione per i numeri, quasi che parlassero di un torto subito, di una vecchia scaramuccia tra vicini fattasi odio profondo. Alle fine l’ho spuntata, signora Maestra, alla fine ci sono riuscita e ho sognato tutta notte il compito in classe di matematica, era tutto sbagliato e io ero piccola, piccola, con il caschetto a scodella e lo stesso sguardo di adesso. Con la mia incapacità di giocare coi numeri, ma dietro il muro alto della scusa - ho molti limiti e troppi difetti - scrivevo orgogliosa il mio nome da destra a sinistra con un pennarello rosso. Il mio nome è sempre stato rosso, cucito addosso.