Volver a las raíces
Sono d’accordo con Mariangela Gualtieri quando scrive: «voglio essere viva fino allo scortico, bucare la vita coi morsi».
Ingiusto e innaturale è stato per me scoprirlo a nove anni, sotto un cielo di ciclofosfamide, vincristina e gesso.
Per molti anni non ho potuto sentire il calore del sole bruciarmi la pelle, non ho potuto baciare mia madre, mia sorella, né vedere le loro facce sorridere.
Sarebbe stato bello persino vederle piangere.
Non ho potuto provare fastidio per la sabbia incastrata tra le dita né ascoltare il rumore che fanno le suole delle scarpe sulla terra fangosa o su quella piena di brecce e sassi.
Più che una persona, nello specchio di fronte al mio viso, si riflettevano un mucchietto di ossa ferme e fragili, un pasticcio di carne molle, magra e violacea.
Pregavo a voce altissima affinché quella guerra estenuante potesse finire al più presto, pure con la mia dipartita, e lo gridavo mentre con un panno bagnato d’alcol mi pulivano la pelle morta che cadeva dal mio corpo ormai marcio.
Un odore impossibile da isolare nei luoghi della memoria.
Dopo circa tredici anni dall’ultima volta, stamane mi sono svegliata con un lezzo nauseabondo dentro il naso, di spirito e gomma. Saliva noncurante dal piano inferiore, dove c’era mia madre che disinfettava, non toccava, si proteggeva.
Ancora quello, lo stesso straziante miasma.
La mia unica reazione possibile è stata rannicchiarmi nell’angolo più remoto della camera con le ginocchia al petto e le mani sulla bocca per trattenere la bile che saliva furiosa nella gola. Raramente riconosco il motivo dei miei stati d’animo: la mia gioia e la mia malinconia provengono sempre da molto lontano.
Stare chiusa in casa, sentire il lattice dei guanti sulle mani, sorridere da dietro una mascherina, per me significa inevitabilmente tornare a dialogare con la morte bambina, con tutte quelle ombre che ho riposto con cura e precisione in una delle tante stanze della mente, chiusa a chiave, con un Cerbero sempre pronto a mordere chiunque abbia voglia di forzarne la serratura.
Quando alla fine mi capitò di guarire, in un giorno caldissimo di ottobre, promisi a Shadia del futuro che l’avrei amata fino allo stremo e che miracolosamente avremmo fatto tutto quello che ci era stato vietato fino ad allora, tutto quello che secondo la scienza non sarebbe stato mai possibile.
Da quel giorno, se mi cerchi mi trovi sempre in movimento, non mi fermo mai.
Ogni tanto mia madre s’arrabbia e dice «Stai sempre in movimento, non ti fermi mai. Impara a respirare».
Raramente le do retta, ma forse avrei dovuto, se non altro per arrivare preparata a questo momento storico di respiri a intermittenza.
Fino ad ora ho sempre camminato fin dove ho potuto, ho scalato montagne e raggiunto vette altissime, metaforiche e non. Ho ammirato l’Italia farmi spazio fuori da tutti i finestrini dei treni e le Alpi innevate salutarmi sorridenti da tutti quelli degli aerei fatiscenti sui quali sono salita prendendo la rincorsa.
Ho dormito su letti di legno e metallo, senza doghe e materassi; su pavimenti lerci e amache intrise d’umidità; dentro una tenda di plastica finissima mentre fuori i fulmini colpivano tutti gli alberi della maremma che avevo intorno; in letti strettissimi fatti solo di coperte, abbracciata ad altre cinque persone; nella cuccetta di un treno notturno diretto a Milano Centrale e poi su un pullman diretto nello stato americano del Connecticut.
In questi giorni sto rivivendo tutto dal principio: mi sono tuffata di nuovo in tutte le acque che hanno sanificato il mio corpo, ho risalito tutte le scale che mi hanno portata verso il tetto di qualcosa solo per vedere qualche città dall’alto, mettendo alla prova la mia fragile felicità o la più pericolosa delle disperazioni.
Ho rincontrato tutte le persone che ho amato e le ho amate daccapo, anche quelle che mi hanno ferita o derubata. Sono risalita sull’autobus diretto a Toledo, passando di nuovo per Castilla y la Mancha, baciando dal vetro lurido i mulini del Don Quijote.
Me la sono sempre cavata da sola e mi dà quasi fastidio condividere uno stesso dolore con qualcun altro, è strano per me che sono sempre stata autonoma, indipendente ed egoista, la maggior parte delle volte per necessità.
Ho sempre dovuto faticare più degli altri: durante gli anni di isolamento mi sono persa i giochi, gli aquiloni, le maestre, il primo fidanzatino da tenere per mano, le notti insieme a qualche compagna di classe per insegnarci a mettere il rossetto e baciare i maschi.
Mentre i miei coetanei imparavano le espressioni aritmetiche e L’infinito di Leopardi a memoria, io imparavo a gestire la paura di morire e la voglia sfibrante di restare aggrappata alla vita.
Non sapevo svolgere le divisioni in colonna ma potevo elencare in ordine alfabetico tutti i componenti delle medicine che mi avevano iniettato durante quei ventiquattro cicli di chemioterapia. Di Bologna non conoscevo le strade, ma potevo raccontare ai miei amici di Roma il profumo che usciva dall’osteria che avevo vicino casa e della signora con la bicicletta gialla che ogni mattina usciva puntuale per andare a lavorare in tribunale. La seguivo con lo sguardo finché svoltava l’angolo, perdendosi tra la nebbia di via Farini con quei suoi occhi blu che assomigliavano a due fari giganti.
Per me adesso, tornare a stare in casa è difficile. Tutto questo silenzio mi terrorizza. Le strade deserte, l’immobilità del tempo, l’attesa senza scadenza.
Forse il gesto più difficile che ho dovuto compiere in questi ultimi anni, ancor più difficile di arrivare a Lione alle due del mattino quella volta in cui mi hanno dirottato l’aereo, più di essere rapinata e sequestrata su un notturno nella periferia di Parigi o di salire fino a San Luca per vedere il tramonto dall’alto, vincendo qualsiasi dolore alle ginocchia; più difficile di dire a qualcuno “ho bisogno di aiuto”, “mi manchi” o “sono innamorata di te”.
Ho paura della mia percezione delle cose, mi mancano le persone che mi mancavano pure prima con un pizzico di drammaticità in più, ho gli occhi rossi di chi ha visto troppa notte.
Passo gran parte del giorno a domandarmi come staranno vivendo questa condizione i bambini, che sembra non capiscano niente e invece assorbono tutto.
Mi chiedo come cambierà il loro destino, che adulti saranno. Mi chiedo come ne uscirò io, stavolta. Come ne uscirà mia sorella piena di adolescenza, le mie amiche piene di futuro e i miei genitori pieni di rughe. Tutte le vite che s’intrecciano alla mia ogni giorno, inesorabilmente.
Trovo conforto in cose minuscole, in parole piccolissime, in persone molto lontane o estremamente vicine, a un metro da me; nei progetti per l’estate, dentro una canzone che arriva da lontano a squarciarmi la nottata, nelle promesse di viaggiarsi incontro senza timore, di abbracciarsi stretti e non lamentarsi più dei sabati sera a far niente al tavolo di un pub.
Di ogni periodo buio tengo stretto questo: saper distinguere meglio e con precisione solo le persone che portano luce.