Vorrei, ma se voglio?
Ogni due settimane esco di casa per andare in un posto che si trova nella stessa via dove abito. Ogni volta mi sento sempre impreparata, come una studentessa che non ha preso abbastanza appunti per l’esame. Preferisco non pesarci, rendere quella visita periodica parte della camminata, una piccola storia.
Vorrei una storia preziosa, da custodire, fresca e immobile. A volte mi sembra che tutto vada avanti troppo velocemente e senza controllo. Mi piacerebbe la freschezza e il profumo ammiccante del gelsomino dietro gli angoli delle case.
Aprire le braccia, respirare forte. Abbandonare per qualche istante la tachicardia e lasciare che le gambe si spezzino e il mio corpo cada pesante sull’erba. Vorrei dimenticare il tempo che scorre e credere veramente che non esista. Ho la testa al sole, la pelle calda ma non sudo. Continuo a guardare con avidità il blu che mi circonda.
Io lo so bene, blu è la condanna del sereno. Mi fa dimenticare, mi brucia la testa fino a che non so più la mia direzione.
“Io non so che direzione prendere adesso. Dove sto andando? Non capisco il senso.”
“Il problema che qui emerge è che non ti fidi di te stessa. Imparerai ad accettare chi sei veramente e a mostrarlo anche al di fuori di te.”
“Io ho paura che esca veramente ciò che sono, ho paura di rompermi in mille pezzi. Ho paura di cadere nel buio di nuovo.”
Non ho mai deciso veramente per me, troppi condizionamenti, troppe le aspettative degli altri da soddisfare. Capitava fino al punto di avere paura di prendere qualsiasi decisione, paralizzata nel blu, nel mio elemento. Io sono come l’acqua, viaggio sembrando immobile, creo correnti in cui mi perdo e mi immergo per non respirare.
Sono seduta davanti a lei, così alta ed elegante, le unghie lunghe e curatissime, azzurre. Mi chiedo, mentre mi parla, come faccia ad ascoltare così tante persone e ad avere per ognuno di loro tale capacità di analisi senza farsi tangere. Molto spesso la invidio. Io che mi accorgo di ciò che succede sempre troppo tardi, sempre quando sono sul filo della miccia di un esplosivo. Un esplosivo a cui io stessa accendo la miccia inconsapevolmente. Ho la testa pesante, gli occhi stanchi e non vorrei parlare in prima persona. Vorrei essere spoglia, un albero solitario di un viale nel periodo autunnale.
Ogni passo che faccio è uno strappo, uno strisciare tra gli anfratti dello spazio. Seguo una linea storta, sbilenca arrotolata su sé stessa, come il mio stomaco all’ora del tramonto. La convenzione di bere l’aperitivo estivo mi crea ansia, non mi sento mai pronta per iniziare, ma poi neanche per finire.
Se non riesco ad essere abbastanza per me, come posso pretendere di essere abbastanza per gli altri? La domanda mi dilania ogni giorno e non riesco mai a catturare la risposta, che si nasconde tra le pieghe dei miei organi.
“Quanto tempo mi ci vorrà per capirlo? Non credo di essere in grado, di essere pronta. Mi sento distante, ma so quello che nascondo. Non voglio che gli altri lo vedano.”
“Dovresti imparare a vederlo tu, ci vuole allenamento. Bisogna scavare infondo per tirare fuori quello che sei e non avere paura di farlo. È un momento di affermazione.”
Io ripeto che ho paura di crollare. Non voglio ampliare il mio spazio, voglio che nessuno mi veda davvero. Io passo, guardo, ascolto, ci sono. Ma non per me. Io vivo in altre storie, in storie che esistono perché qualcuno le ha scritte. Questo meccanismo mi ha sempre salvato dalla solitudine, tanto che non riesco ad immaginarmi di essere davvero per dei momenti, con qualcuno.
Eterea, viaggio tra gli istanti a volte fin troppo reali e costruisco la mia storia personale, pensando di non scalfire quella delle altre persone. Neanche un minimo segno.
La notte mi ritrovo però a pensare a tutti i segni che mi porto addosso, che il mondo mi ha lasciato sulla pelle, dentro gli organi, nel cervello.
Allora mi dico, con rabbia, che quei segni spero di averli lasciati anche io sul mondo fuori.